sabato 17 novembre 2012

Jesi - Macbeth



 Teatro Pergolesi    di Jesi (AN) 

Allestimento ricco di trovate in un palcoscenico nudo

(11-11-12)

Il Macbeth delle facce bianche

Di Giosetta Guerra


L’avidità non fa guardare in faccia a nessuno, tanto vale aver di fronte facce tutte uguali, la follia annebbia la visione della realtà, che perde quindi colore, contorni, definizione, qualche sprazzo di lacerante lucidità serve a mettere a fuoco le nuove vittime o le allucinazioni dei misfatti.
Questo, secondo me, è il significato dell’allestimento del Macbeth di Verdi al Teatro Pergolesi di Jesi con le scene di Josef Svoboda riprese da Benito Lenori, le luci e la regia di Henning Brockhaus, i costumi di Nanà Cecchi, le coreografie di Maria Cristina Madau.
Allestimento ricco di trovate.
Il sipario si apre su un gelido spazio, tipo paesaggio lunare, popolato di streghe gesticolanti, di acrobati sospesi e corpi rotolanti, squarciato da lampi di luce bianchissima, rossa e blu.
Bella l’idea registica delle streghe funambole che si attorcigliano in aria su lenzuola bianche.  
Il palcoscenico è nudo e crudo, solo un artigianale trono regale dritto o ribaltato e un tavolo apparecchiato all’occorrenza, quinte incolori si muovono in ogni direzione, si fanno trasparenti od opache secondo la provenienza della luce, con la tecnica delle proiezioni diventano grigi muri ruvidi, bianchissime pareti lisce, grumosi pannelli lavici, accumulo di teschi e di fili spinati, groviglio di rami e di alberi.

Nella scena del  banchetto un gigantesco specchio riflette il teatro, il grande tavolo e i due protagonisti, ma lascia anche comparire sul retro le visioni del delirio di Macbeth. La scenografia di un grigiore assoluto definisce più l’atmosfera opprimente che gli ambienti. Squarci di luce lampeggiante acuiscono il senso di terrore, grigi o neri anche tutti i costumi, grigio chiaro per le bende che fasciano le quasi onnipresenti streghe.  In più le proiezioni effettuate dal davanti spesso investono anche i personaggi che appaiono come figure indefinite e traballanti.  
Tutti hanno la faccia dipinta di bianco.
I pochi elementi di colore sono i lunghi capelli rossi inanellati della Lady, le corone dorate e i mantelli rossi dei reali, l’azzurro della mensa imbandita, le immagini delle visioni. 

Con gli occhi della pazzia tutto è visto all’incontrario: per brillantezza del colore e nitidezza delle forme le visioni e le allucinazioni sono più realistiche della realtà stessa che è invece visionaria e allucinata.
Il regista avrebbe dovuto lavorare di più sui caratteri, avidità e follia generano mostri e la coppia dovrebbe essere fortemente caratterizzata nella gestualità e nell’espressione. Su questa linea la Lady spiritata e con gli occhi sbarrati è la più vera scenicamente, il re doveva essere più scavato dal tormento e Banco doveva essere più grintoso.
Anche vocalmente la Lady Macbeth di Tiziana Caruso è assolutamente credibile, non tanto per perfezione tecnica e vocale, quanto per la forza dell’accento, la potenza dell’emissione, lo scavo della parola. Il soprano ha esibito una voce graffiante, un po’ intubata nei gravi ma squarciante negli acuti (Vieni, t’affretta), una bella voce scura con zona acuta che ferisce, agile e scintillante nel Brindisi, meno plastica nella nota aria La luce langue (suoni sommessi inudibili, gravi vuoti, slanci acuti gridati). Ha modulato meglio la voce quando la follia era in stato avanzato, pur mantenendo l’aggressività e la potenza vocale, che qualche volta avrebbe potuto anche sciogliersi in filati, come fa la Theodossiou. Anche se l’emissione non è sempre fluida e spesso l’urlo è in competizione con l’orchestra, l’interpretazione viscerale della Caruso ha restituito una procace Lady violenta e assassina sia nella voce che nelle finzione scenica, una pazza in trance nella scena del sonnambulismo.
La voce ampia, piena ed estesa di Luca Salsi ben si adatta alla smania di grandezza di Macbeth. Il baritono canta bene, usa con vigore ma anche con morbidezza una voce grandissima, dai suoni puliti, rotondi, sostenuti, lunghi ed ampissimi e dalla zona acuta brillante e luminosa, grazie ad un fraseggio ora irruente e temperamentoso ora fluido e sfumato, all’intensità dell’accento basato sullo scavo della parola scenica. Imponente anche nel gesto. Linea morbida e fiati lunghissimi per  Pietà, rispetto, onore (e non amore come da libretto, l’ha detto e l’ha fatto).

Banco aveva la splendida voce del basso Mirco Palazzi; i suoni gravi penetranti e puliti, le magnifiche arcate con fiati lunghi e suoni sostenuti e ben udibili anche sopra le alte sonorità dell’orchestra (Come dal ciel precipita), la proiezione morbida della voce (Oh qual orrenda notte) hanno ottenuto consenso e ammirazione.
Sonorità generalmente altissime delle voci e dei suoni che comunque si amalgamano, si fondono e coinvolgono.

Pur essendo coreano, Thomas Yun (Macduff
ha esibito una buona pronuncia italiana, ma anche bel colore tenorile, accento incisivo, squillo robusto, dimestichezza col canto sfumato, buona linea di canto con le dovute smorzature e fiati tenuti (Ah, la paterna mano).
Dario Di Vietri (Malcolm) è un tenore acuto dal timbro un po’ aspro.
Il basso Carlo Di Cristoforo (medico) ha voce scura di bel colore ed espressione carica di spavento.
Miriam Artiaco (dama) è un sopranino pulito dai suoni un po’ stretti.
Andrea Pistolesi (domestico, sicario e araldo) è un baritono chiaro.

Magnifiche le atmosfere create dal coro lirico marchigiano “V. Bellini”, preparato da Pasquale Veleno, allettanti i quadri d’insieme. In Patria oppressa  la pienezza vocale è stata coinvolgente, il canto sul fiato con formidabile sostegno dei suoni sfumati e tenuti a lungo, la potenza nel canto pieno e la gestione morbida della voce, hanno caratterizzato la sezione maschile, ottima anche nel canto staccato, ritmato e sillabato.
Brave le streghe anche nel canto scandito (Tre volte miagola) ma il volume è poco.
Il M° Giampaolo Maria Bisanti ha diretto con foga e partecipazione un’orchestra incalzante, tormentosa, a volte troppo sonora. L’orchestra era la FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana.
Un bello spettacolo, come siamo soliti vedere al Teatro Pergolesi di Jesi.

Per ricordare gli artisti marchigiani del passato.
Mario Tiberini debuttò il ruolo di Macduff nel secondo cast di Macbeth agli inizi di carriera a Palermo il 13 dicembre 1852 col nome di Mariano Tiberini (nel primo cast c’era Antonio Pompeiani), accanto a Ettore Barili (Macbeth), Eufrosina Marcolini (Lady), Cesare Nanni (Banco), Paolo Mazza (Malcolm), Adelaide Orlandi (Dama), Giovanni Grifo (domestico), Francesco Rinaldi (medico).

martedì 6 novembre 2012



FANO  Teatro della Fortuna – Stagione di prosa

Furioso Orlando

Ballata in ariostesche rime 

per un cavalier errante

(21 ottobre 2012)

Servizio di Giosetta Guerra

Il multiforme ingegno di Stefano Accorsi

Dell’ultimo bacio appassionato amante, or d’eroiche gesta è narrator errante.
Di donne, cavallier, armi ed amore, è d’audaci imprese moderno cantore.

In ariostesco mondo Accorsi s’è calato, dove Ruggiero e Bradamante ha incontrato,
Medoro e Cloridano in terra ha trovato, indi Angelica ed Orlando un po’ turbato,
poi Astolfo, l’Ippogrifo e il Mago Atlante, che d’audaci imprese n’hanno fatte tante.
Per via, s’è perso anche in una selva oscura, ma Dante era proprio un’estranea figura.
Del moro Otello trovò il fazzolettino, che di Desdemona decretò il destino,
son luoghi e personaggi un po’ fuori tema, ma ad unirli è della gelosia il problema.

La narrazione in rima del “Furioso Orlando”, effettuata da Stefano Accorsi sul palco del Teatro della Fortuna di Fano, mi ha preso la mano e mi ha spinto ad iniziar lo scritto in “manzoniani” dodecasillabi, ma, ahi, quanto a continuar è cosa dura.

Stefano Accorsi, balzato all’attenzione del vasto pubblico col film di Muccino “L’ultimo bacio”, è attore di teatro dalla memoria formidabile. Per un’ora e mezza ha recitato un aulico testo in rima senza alcun supporto scritto, interpretando col gesto, con l’inflessione della voce (sommessa, urlata, declamata, ironica, violenta e affannosa per la pazzia di Orlando, mielosa per la maga Alcina) e con l’eloquente espressività delle mani, le azioni e i conflitti sentimentali dei personaggi che popolano l’Orlando furioso.


Il testo teatrale è una riduzione con manipolazione dei 38.700 versi del poema dell’Ariosto, effettuata da Marco Baliani, che ai fini teatrali ha concentrato l’attenzione sugli amori, le gelosie, la pazzia (non è cambiato molto dal 500 ad oggi), le gesta dei personaggi più noti, con contaminazioni letterarie tratte dalla Divina Commedia di Dante Alighieri e da Otello di Shakespeare, per alleggerire con l’ironia la fitta ed intricata vicenda. 
A rendere il monologo in versi leggero e scintillante ci ha pensato anche Stefano Accorsi che, novello paladino in abiti modernizzati, ha tenuto un ritmo narrativo sostenuto e brillante, ha usato lo spazio scenico con esuberante padronanza, ha mimato il duello dei paladini con i movimenti  tipici del teatro dei pupi e ne ha riprodotto voci e rumori, ha cambiato espressioni del viso e registri vocali, ha saltato, ha sudato, si è accasciato, è risorto, per una proiezione idealmente concreta di un mondo immaginario, che noi siamo riusciti a “vedere”.  Bravissimo! Ma…quando Orlando perde il senno e principia a togliersi l’armatura, beh,

non dovea limitarsi al sol corpetto, 
 ma avria dovuto denudarsi il petto.

(Nudo e pazzo come lo presenta Ariosto).

Accanto a lui un’attenta e discreta Nina Savary, in un bell’abito d’epoca, nei molteplici ruoli di cantante, musicista, rumorista e interlocutrice, ha cantato, ha accompagnato la recitazione dell’Accorsi col pianoforte, lo xilofono, il bandeon  e la chitarra e quasi un alter ego femminino dal marcato accento francese, si è interfacciata con lui con battute, riflessioni, critiche, domande. 

 
Merito del bel successo ottenuto va anche al light desiner Luca Barbati per il gioco chiaroscurale atto ad accentuare il mistero, a Bruno Buonincontri autore delle simboliche scene lignee essenziali ed efficaci, al costumista Alessandro Lai e al regista Marco Baliani.
Lo spettacolo è prodotto da Nuovo Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria.
La stagione di prosa fanese è realizzata dalla Fondazione Teatro della Fortuna in collaborazione con AMAT, con il sostegno di MIBAC e Regione Marche e con il patrocinio di Provincia di Pesaro e Urbino.

 guardare video su
https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=fNFvntmI5-o




lunedì 5 novembre 2012

 

Teatro delle Muse 

di Ancona  

Decennale e Premio Corelli

(28 ottobre 2012)
 

Di Giosetta Guerra
 
Il Premio Corelli quest’anno è stato inserito nei festeggiamenti del decennale del Teatro delle Muse,  celebrato con un'intera giornata di visite guidate, convegni, annullo filatelico speciale, pubblicazione di un volume fotografico sugli allestimenti di opere liriche e concerto serale, per il quale si sono ingaggiati tre soprani, nientepopodimenoché Dimitra Theodossiou, Jessica Pratt e Carmela Remigio, per far da corona al tenore premiato, Paolo Fanale. Che onore per lui!


Purtroppo hanno cantato poco, sei arie in quattro: due a testa la Theodossiou e la Pratt (vestite di nero), una sola la Remigio e una Fanale, accompagnati dalla FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, diretta da una temperamentosa Carla Delfrate; l’orchestra, sommessa e delicata nella Canzone del salice, era più a suo agio nelle alte sonorità e nelle esplosioni che nel cesello delle note pagine di sola musica di Verdi (Sinfonia del Nabucco, Preludio I atto del Macbeth con i ghigni delle streghe dal flauto di Francesco Chirivì, Ouverture de La Forza come bis) e di Bellini (Sinfonia dalla Norma). 

Il cesello si è sentito di più nella voce degli strumenti solisti, che di volta in volta emergevano dal discorso orchestrale, arpa, fagotto e il flauto di Chirivì sempre in primo piano, ma la voce che ha catturato la platea è stata quella del violino solista nella pagina per violino e orchestra, Meditation da Thaïs di J. Massenet, eseguita magicamente da Alessandro Cervo, inizialmente accompagnato dalla sola arpa di Margherita Scafidi e poi da un’orchestra densa, che ci ha portato dentro un romanticismo diffuso e non mieloso, pervaso di una musica dolcissima e sognante.
Sul piano vocale la netta superiorità dei tre soprani ha messo in secondo piano il premiato.
Dimitra Theodossiou, eccellente soprano drammatico d’agilità, ha presentato due cavalli di battaglia del suo repertorio verdiano: Pace, pace mio Dio da La forza del destino e La luce langue da Macbeth. Il soprano greco ha il dramma nella voce, la densità dei suoni centrali, la luminosità degli slanci acuti, i lunghi e sensibili filati rinforzati con la messa di voce, lo scavo della parola, il cesello della frase, le permettono un’interpretazione intensa, teatrale anche in concerto; i gravi graffianti, gli slanci infuocati, lo sguardo fisso nel vuoto la immergono completamente nella follia della Lady più terribile dell’opera. Dimitra è vera attrice e la sua Lady Macbeth genera turbamento.
Jessica Pratt, eccelso soprano di coloratura, ama molto la Linda di Chamounix di G. Donizetti, che le consente di esternare tutte le sue doti belcantiste, nell’aria  Ah tardai troppo…O luce di quest’anima, la sua musicalissima agilissima pulitissima voce s’ingigantisce nelle progressioni acute, attraverso rocambolesche scale cromatiche, i suoi sovracuti lanciati e sicuri vibrano nelle orecchie dell’ascoltatore come lame di cristallo. La sua potenza risiede proprio nella tessitura alta estrema, ma non scherza neanche nelle scintillanti pagine di bravura e nelle lunghe cadenze dell’aria di Norina Quel guardo il cavaliere, So anch’io la virtù magica da Don Pasquale di Donizetti.  
Carmela Remigio (con un fantastico abito bianco decolleté, per presentar Desdemona) ha eseguito solo un’aria in chiusura del programma, Canzone del salice… Ave Maria, da Otello di G. Verdi, un’interpretazione pregnante d’emozione e tecnicamente perfetta: canto sul fiato, uso della messa di voce, sonorità delle mezze voci, pulizia e sostegno dei suoni tutti ben a fuoco, pieni e arrotondati nel registro grave, lucenti e bellissimi in quello acuto, il volume non è enorme ma è ben dosato.
In mezzo a queste forze della natura Paolo Fanale ci è sembrato un tenero virgulto in balia del vento: al termine della prima parte, il tenore, introdotto da arpa e fagotto, ha cantato le prime frasi di Una furtiva lacrima con voce tremolante fin dall’attacco come se fosse una canzonetta, poi il suono si è stabilizzato ed illuminato in tessitura acuta dove è uscito il bel colore accanto alla tenuta dei fiati e all’uso della messa di voce. Non ha cantato altro, un po’ poco rispetto al ricco programma che avrebbe eseguito se la data fosse rimasta a febbraio. Troppo poco per onorare un premio intitolato ad un grande.

Comunque gli è stato conferito il Premio Internazionale “Franco Corelli” per aver interpretato l’anno scorso alle Muse il ruolo di Ferrando in Così fan tutte, (dove aveva evidenziato i soliti pregi e difetti vocali: bella cavata, buona tecnica, risonanze nasali).
Dopo un’introduzione del Sindaco/presentatore Gramillano, il Direttore artistico Alessio Vlad ha consegnato al tenore una scultura originale realizzata dall’artista marchigiano Paolo Annibali di San Benedetto del Tronto, una consegna molto informale, senza un’immagine di Corelli sul fondale, senza la voce di Corelli nell’aria, senza una parola su Corelli, senza una presenza femminile in palcoscenico come presentatrice per spezzare il grigiore di quei tre o quattro abiti scuri maschili.
Il quattro cantanti si sono trovati a cantare insieme la Tarantella di Rossini come bis, brano poco adatto a tutte e quattro le voci, che si sono sentite poco.
All’uscita dal teatro un calice di vino e due dolcetti per tutti gli spettatori.

Alla luce di quanto sopra qualche domanda sorge spontanea.
1) Vista la notorietà e la valenza di Franco Corelli, non sarebbe giusto scegliere il premiato nel più vasto panorama lirico internazionale per avere proprio il migliore?
2) Se per statuto si deve attingere solo agli artisti che si sono esibiti alle Muse, il Premio è internazionale o è locale?
3) Se si premia un cantante che si è esibito al Teatro delle Muse, perché fare la premiazione l’anno dopo?
4) Se un anno la stagione lirica dovesse saltare, l’anno successivo salterebbe anche il Premio Corelli? 
5) Gli organizzatori non sono curiosi di vedere come si organizzano altrove i Premi lirici?

giovedì 1 novembre 2012

Modena, Teatro Comunale Pavarotti

 Don Carlo di Giuseppe Verdi 

(17 ottobre 2012)


Il dramma dell’incomunicabilità e dell’infelicità in un clima di cupa religiosità.


Il 17 ottobre 2012 ho festeggiato il mio compleanno al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena con  Don Carlo, l’opera verdiana che ha aperto la stagione lirica 2012-13 con un nuovo allestimento del Teatro in coproduzione con Piacenza per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Verdi.
L’opera era quella in cinque atti nella versione di Modena del 1886 su libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, tratto dal poema drammatico di Schiller. 
Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini.
È vero che l’antefatto descritto nel primo atto è necessario per comprendere l’amore di Carlo per la futura regina (storicamente mai avvenuto), ma è anche vero che questo atto non è poi così tanto bello e sinceramente ci sentiamo proiettati dentro l’opera quando si ascoltano le note d’inizio del II atto.
Alessandro Ciammarughi ha scelto bellissimi costumi d’epoca sontuosi ed elaborati, nei colori nero, bianco e rosso; per le scene ha adottato velatini, proiezioni per i cambi rapidi, tele dipinte per fondali classici creati dal laboratorio modenese di Rinaldo Rinaldi, arredi e soppalchi in legno, una gigantesca luna sopra i giardini della Regina, la tomba di Carlo V (al centro come l’aveva posizionata Luchino Visconti) attorniata da ceri e una statua della Madonna come presenza funereo-religiosa, due sagome nere d’impiccati vittime dell’Inquisizione su un fondale rosso, che hanno creato gli ambienti richiesti col supporto delle luci e controluci di Nevio Cavina.

Per quest’opera corale con tanta gente in scena il regista Joseph Franconi Lee ha seguito una normale linea narrativa, prediligendo una certa compostezza dei personaggi e una certa staticità delle masse per il disegno di cromatici quadri scenici. Movimenti coreografici Marta Ferri.

Il cast ci ha lasciato abbastanza soddisfatti.
Giacomo Prestia (Filippo II, Re di Spagna), un basso cantante che sa cantare, ha esibito un bellissimo colore vocale e, pur avendo perso un po’ la salda fermezza di un tempo, è emerso per eloquenza e nobiltà del fraseggio nelle ampie frasi melodiche, morbidezza dell’emissione, imperiosità d’accento, scavo della parola scenica; l’intensa e dolente interpretazione (spogliato degli abiti regali e in ginocchio davanti alla statua della Madonna) della lugubre e stupenda romanza  Ella giammai m’amò, attaccata sottovoce, ha fatto scattare l’applauso.
Molto intensa ed emotivamente coinvolta nel ruolo di Elisabetta, Cellia Costea ha modulato a meraviglia una bella voce di soprano dal suono robusto e lunghi fiati.

Inossidabile il tenore Mario Malagnini (Don Carlo) per bella presenza scenica e per qualità canore; la sua voce non denuncia il passare degli anni: bella, grande, fresca, ha brillato per smalto e sicurezza dello squillo nelle impennate verso il registro acuto, per colore e per un accattivante modo di porgere nel cromatismo del fraseggio,  per saldezza della linea di canto; formidabile nel duetto con Rodrigo (Dio che nell’alma infonde).
Il giovane baritono Simone Piazzola (Rodrigo, eroe positivo) ha fatto sfoggio di un mezzo vocale ampio e scuro, potente nell’irruenza del fraseggio, morbido nelle frasi di larga cantabilità, luminoso negli slanci acuti; i suoni erano sostenuti ma talvolta  cupi e pesanti.
Il mezzosoprano Alla Pozniak, veemente ma non suggestiva nelle vesti della Principessa Eboli, ha fatto affidamento sulla potenza e sull’estensione di una vocalità che tocca bene tutti i registri e su un modo di porgere sfumato e intenso, ma il colore opaco, i centri gonfiati, i gravi intubati, gli acuti poco controllati, la dizione incomprensibile hanno infastidito l’ascolto.
Luciano Montanaro (Il Grande Inquisitore) ha voce ampia, sostiene bene il suono, ma non è un basso profondo, è meno grave di Prestia.
Paolo Buttol (Frate) ha voce scura un po’ impastata.
A completare il cast  Irène Candelier (Tebaldo e Voce dal Cielo),  Giulio Pelligra (Conte di Lerma),  Marco Gaspari (Un araldo reale).
Bravo il Coro Lirico Amadeus – Fondazione Teatro Comunale di Modena, preparato da Stefano Colò.
La temperie emotiva di questo dramma della solitudine affettiva e dell’incomunicabilità, frutto del pessimismo verdiano, non era al massimo neanche nell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna, a volte sopra il volume consentito, diretta da Fabrizio Ventura.


Curiosità del passato
Il 22 aprile 1869 il tenore Mario Tiberini e sua moglie il soprano Angiolina Ortolani debuttarono i ruoli di Don Carlo e di Elisabetta al Pagliano di Firenze (“I coniugi Tiberini furono artisti distintissimi i quali rendono testimonianza che la scuola di canto italiana ha ancora egregi rappresentanti” La Gazzetta di Milano, 25 aprile 1869, pgg. 144-145)

domenica 28 ottobre 2012

 Alessio Boni 

al Teatro Rossini di Pesaro

Canto degli esclusi

concertato a due per Alda Merini

(21 ottobre 2012)

Di Giosetta Guerra


Due leggii e due seggiole nel palcoscenico nudo. Dal buio esce la voce di Alda Merini che parla e canta canzoni di musica leggera, segue altra musica tra cui quella di Traviata. Alessio Boni e Marcello Prayer si avvicinano ai leggii ed inizia una lettura incrociata dei testi di Alda Merini, la testimone della precarietà e delle contraddizioni della vita, sempre in bilico tra la sofferenza e la gratificazione sull’impalpabile filo della follia. Provata dagli orrori della guerra, devastata dagli obbrobri dei manicomi, ma sempre lucida nelle deduzioni e profonda nei sentimenti, apprezzata dal pubblico e dai mass media, la Merini ha raccontato la sua vita travagliata, le sue sensazioni e il suo mondo interiore in un’infinità di scritti, che per la veridicità dei contenuti, la nettezza delle immagini, la fluidità del racconto e l’incisività del linguaggio, sono entrati nel filone della poesia, ma che io invece definirei  “prosa lirica”.
Alessio Boni, attore colto e introspettivo oltre che bello, eccellente interprete sul piccolo e sul grande schermo di famosi personaggi dell’arte, della musica, dello spettacolo (inimitabile la sua immedesimazione in Caravaggio, Puccini, Walter Chiari - praticamente uguale agli originali), di figure storiche (“Guerra e pace” e “Cime tempestose”),  di personaggi estremi (“La meglio gioventù” e “Arrivederci amore ciao”) o particolari anche nella comicità (“Tutti pazzi per amore”), tanto per citarne alcuni, attualmente alle prese con un nuovo personaggio simbolo della lucidità mentale immortalato da Omero, Ulisse, che verrà presto trasmesso in televisione, ha ideato questa lettura scenica  dell’opera della Merini, volendo al suo fianco Marcello Prayer, con cui aveva lavorato nel film “La meglio gioventù”.
Alessio Boni, che, nonostante la giovane età, ha anche al suo attivo una bella carriera teatrale, si era già cimentato nel gioco della Poesia nella nudità scenica recitando Pavese e Pasolini, e con Alda Merini continua l’analisi di autori tormentati così vicini alla vita quotidiana.
In questa lettura teatrale coinvolgente, viscerale, poetica, intercalata da brani musicali e dalla viva voce registrata della stessa Merini, le voci dei due attori si alternano e s’intrecciano nella successione delle frasi o nella ripetizione della stessa frase con intonazione diversa, declamando o smorzando i toni, scandendo la parola per incidere nelle menti o farfugliando per esprimere lo stato confusionale, l’espressione e la gestualità sono quelle sceniche, lo scavo della parola rende viva l’immagine, l’uso modulato della voce ai fini espressivi comunica il coinvolgimento dei due attori nelle singolari vicende di un’anima ferita.
Bravi.
 
Produzione Parmaconcerti
In collaborazione con Teatro Stabile di Torino

giovedì 25 ottobre 2012




BOLOGNA Teatro Comunale

 

 

Cavalleria rusticana di Mascagni

e I Pagliacci di Leoncavallo

(14 ottobre 2012)

L’assurda idea del possesso 

A cura di Giosetta Guerra


Turiddu circuisce Lola, sposa di Alfio, e Alfio lo uccide, Nedda ama Silvio e suo marito Tonio li uccide. E questo lo chiamano amore? No, questo non è altro che assurda idea di possesso.  Solo il denaro rende padroni, non l’amore. E poi siamo certi che si tratta di storie del passato?
La fatidica frase “finché morte non vi separi” ha creato fin troppe vittime, è meglio adottare quella che si pronuncia a Las Vegas “vi dichiaro marito e moglie finché stress non vi separi”.
Al Teatro Comunale di Bologna le cruente vicende di Cavalleria rusticana e de I Pagliacci,  due brevi opere forti, immediate, viscerali, taglienti, sono riunite in un’unica serata con lo storico allestimento di Liliana Cavani (regia), Dante Ferretti (scene), Gabriella Pescucci (costumi), Gianni Mantovanini (luci), Micha van Hoecke (movimenti coreografici), ripresi da Marina Bianchi, Leila Fteita, Laura Lo Surdo, Daniele Naldi e Sergio Paladino.

Per Cavalleria c’è la tradizionale piazzetta con la chiesa antica e un caseggiato moderno di tipo condominiale con finestre dalle tende chiare, ora chiuse, ora aperte, da cui esce la luce, si affacciano persone vestite secondo le ore del giorno e si vedono donne intente alle faccende personali. Nel pian terreno due grandi porte per l’accesso alla casa di Turiddu e al garage (col carretto sempre dentro) di Alfio (ma…abitavano nello stesso palazzo?).
In piazza un gran via vai di gente: uomini in conversazione, donne alla bancarella di un venditore ambulante, persone dirette alla messa, processione col prete, i fedeli e gli incappucciati.
Abiti castigatissimi, scuri o neutri, per le donne (bianco per Lola, chissà perché?), neri con camicia bianca per gli uomini. Le luci disegnano l’evoluzione della giornata.

Per Pagliacci una scena scarna di tipo felliniano: al centro un precario palchetto da commedia dell’arte delimitato da quattro pali in legno e sormontato da una fila di lampadine, a sinistra una roulotte e a destra un muro. Un furgoncino per il trasporto dei commedianti. Allestimento a vista di una platea con panche portate dagli spettatori.
Ambientazioni semplici e funzionali.

È sul piano vocale che abbiamo stretto le orecchie.

In Cavalleria il tenore Giancarlo Monsalve (Turiddu) è bello e basta, dovrebbe fare l’attore e non il cantante; la voce non c’è e quel poco che si sente non è cantare, il suo canto mette in difficoltà l’ascoltatore. Ma come cavolo canta? Mi sono chiesta. La voce è afona, i suoni sono forzati, stimbrati, ingolati, il declamato a mezza voce è fatto sotto voce,  la linea di canto è disordinata; lo squillo è robusto ed esce qualche acuto (beviam in Viva il vino col coro), ma qualche squillo non basta per fare un tenore. Lucia Cirillo (Lola) non è né bella né provocante e non ha una gran voce.
Il soprano Katia Lytting (Santuzza) ha voce estesa e potente, vibrante e di bel colore, tagliente in zona acuta, abbastanza corposa e scura nel medio basso; è una brava interprete con belle e pregnanti espansioni acute, quasi un pianto lacerante (Voi lo sapete, o mamma), un fraseggio intenso, la capacità di passare agevolmente dalla densità del suono grave alla luminosità del registro acuto.
Molto coinvolta nel ruolo di una credibile Mamma Lucia, il mezzosoprano/contralto Cinzia De Mola  esibisce un bel colore scuro e suoni a volte un po’ stretti.    
Alfio, più boss che carrettiere, fuma il sigaro; il baritono Alberto Mastromarino esibisce voce possente ma poco sonora, ingolata nell’ascesa all’acuto, autorevolezza e sicurezza gestuale.
Bravi invece i coristi, preparati da Lorenzo Fratini; la pastosità e la densità delle voci maschili, la pulizia e la leggerezza di quelle femminili (gli aranci olezzano), l’abilità nel gestire con morbidezza il canto a mezza voce (inneggiamo), la grande cantabilità e la pienezza dell’amalgama sonoro fanno del Coro del Teatro Comunale di Bologna l’elemento di spicco della serata; brave anche le voci bianche preparate da Alhambra Superchi.

Nei Pagliacci Alberto Mastromarino (Prologo e Tonio) è più a suo agio nella cantabilità del Prologo, canta sul fiato per ammorbidire, ma quando la voce si espande qualche suono ingolato o sbracato esce comunque, volume e potenza si esternano nelle progressioni acute.
Inva Mula è un soprano lirico belcantista che si destreggia bene anche nel verismo, interpreta Nedda/Colombina con bella voce, salda ed estesa, il canto è teso, ma con belle arcate e l’uso della messa di voce anche per gli attacchi in acuto. Piero Giuliacci (Canio) elargisce con generosità una vocalità di tenore spinto fino al punto di non controllare l’intonazione di alcuni acuti peraltro sostenuti (Un tal gioco) e di avere l’emissione non perfettamente a fuoco (Tu sei pagliaccio), meglio in Vesti la giubba
Soprano e tenore combinano realismo scenico e verismo vocale per la scena finale di alta drammaticità.

Il baritono Marcello Rosiello nel ruolo di  Silvio esibisce timbro caldo, voce estesa e vibrante, colore non sempre accattivante, canta di fibra, scambia la mezza voce col sotto voce e non si sente nel duetto tormentoso per lo più a voci lanciate con Nedda (Se tu scordassi l’ore fugaci).
Leonardo Cortellazzi, nel ruolo di Beppe che nello spettacolo di piazza impersona Arlecchino, usa propriamente una voce pulita di tenore chiaro e acuto, curando i passaggi, la dizione, la linea di canto 
(O Colombina, il tenero fido Arlecchin).
Anche il coro ci dà dentro con alte sonorità.

L’orchestra del Teatro Comunale di Bologna, compatta, sonora, incalzante e ampiamente coinvolta, sotto la bacchetta di Alberto Veronesi fa sentire la sua presenza in Cavalleria rusticana, ma sa anche comunicare delicatezza, struggente malinconia con suoni sospesi e galleggianti; ben eseguito ma non emozionante l’Intermezzo.
I Pagliacci hanno una linea narrativa più compatta e coinvolgente, sostenuta da un ricamo strumentale. La musica è più moderna e meno orecchiabile di quella di Cavalleria, le pagine corali hanno un contenuto più discorsivo e narrativo rispetto a quello più descrittivo dei cori di Cavalleria. Morbido il disegno orchestrale sotto la tensione delle voci, l’Orchestra tiene una linea melodica diffusa e captante e i singoli strumenti fanno sentire il loro canto.
La regia non travalica la realtà e così i costumi. Nota di colore: Arlecchino arriva su un cammello.

Crediti fotografici: Rocco Casaluci per il Teatro Comunale di Bologna

sabato 20 ottobre 2012


Jesi - Teatro Pergolesi

I PURITANI di Bellini

(7 ottobre 2012)

Foto Binci Jesi

Di Giosetta Guerra 

Ottime le voci scure


I Puritani, melodramma in tre atti di Vincenzo Bellini su libretto di Carlo Pepoli, tratto dal dramma storico di Jacques-François Ancelot e Joseph Xavier Boniface (noto col nome di Saintine), Têtes rondes et Cavaliers, debuttò al Théâtre Italien di Parigi il 24 gennaio del 1835, con esito trionfale. Merito delle scelte musicali di Bellini, che ha unito la scorrevolezza del melodramma italiano e la ricercatezza del teatro musicale francese, merito anche di un cast di fenomeni vocali, quali Giovanni Battista Rubini, Giulia Grisi, Luigi Lablache e Antonio Tamburini.
Con il ricordo di siffatti vocalisti chiunque oggi voglia allestire I Puritani, che riserva ai solisti pagine di estremo virtuosismo, deve fare i conti col passato. 

I veri trionfatori de I Puritani, allestiti al Teatro Pergolesi di Jesi per l’inaugurazione della stagione lirica 2012, sono stati il baritono coreano Julian Kim che è entrato nel carattere nobile e cavalleresco di Sir Riccardo Forth, colonnello puritano innamorato non ricambiato di Elvira,  e il basso Luca Tittoto nel ruolo dell’ex- colonnello Sir Giorgio Valton, zio e confidente di Elvira.
Julian Kim (Riccardo) è un cantante baciato dalla fortuna per il dono naturale della voce (un’imponente vocalità scura di straordinaria bellezza, ricca di armonici, di notevole peso, ampiezza ed estensione) e dotato di un’ottima tecnica (legato e dizione perfetti, magnifica proiezione del suono sul fiato e con messa di voce, linea di canto morbida e sfumata nelle arcate melodiche e nelle estese progressioni acute della cavatina “Ah, per sempre io ti perdei”, possente nei momenti marziali).
Luca Tittoto (Giorgio) si è imposto per un’accattivante voce di basso ampia e vibrante, per la  rotondità, la morbidezza e il sostegno del suono anche nel registro grave, per l’interpretazione pregnante e comunicativa grazie a un bel modo di porgere, al canto sul fiato, all’emissione fluida, al  bel legato, alla sensibilità del fraseggio.
Bravo anche il basso Luciano Leoni  che ha cantato con voce ben timbrata la parte del Governatore puritano Lord Gualtiero Valton, padre di Elvira.
Due voci più mature (non d’età ma di consistenza e d’esperienza) nei ruoli protagonisti di Arturo ed Elvira non avrebbero guastato.
Nel terribile ruolo di Lord Arturo Talbo (cavaliere e partigiano degli Stuardi) ha debuttato il tenore leggero  Yijie Shi, un contraltino rossiniano, ascoltato nel Conte Ory a Pesaro e nel Viaggio a Reims a Firenze. Le sue doti naturali (voce chiara, estesa, acutissima, ben proiettata), non disgiunte dalla serietà della sua preparazione, gli hanno permesso di raggiungere con sicurezza e spavalderia le alte tessiture fino a zone stratosferiche, ma la voce è risultata rigida specialmente negli acuti che erano taglienti perché affrontati di forza e non in maschera, il timbro era più gradevole nel settore medio basso per un fraseggio morbido e l’uso della messa di voce. Il ruolo infatti, oltre a squillante ardimento e canto d’impeto, richiede anche passione, delicatezza d’espressione e accento accorato, che il tenore giapponese deve acquisire perfezionando la “flexibility”, come diceva Samuel Ramey.


Maria Aleida, soprano leggero di coloratura, ascoltata proprio quest’anno nel Signor Bruschino a Pesaro, ha affrontato coraggiosamente il ruolo di Elvira, facendo affidamento sulle qualità belcantistiche della sua voce e sulla sua buona tecnica di canto. Ha cantato bene, con voce agile, luminosa, svettante,  ha eseguito cadenze, filati anche rinforzati, belle scale cromatiche e sovracuti siderali, il canto nella tessitura acuta era splendido, la linea di canto morbida, ma la voce di poco peso a volte non si sentiva, i centri erano carenti e la dolcezza della melodia riservata all’eroina romantica spesso non usciva.
Il mezzosoprano Elide De Matteis Larivera ha prestato una voce tremolante alla regina Enrichetta di Francia.
Dario Di Vietri (l’ufficiale puritano Sir Bruno Robertson) è un tenore con voce chiara ed estesa ma non di bel timbro, perché usa poco la maschera.
Il Coro Bellini, preparato da Pasquale Veleno, è stato artefice di belle scene corali ed ha tenuto una linea di canto morbida ed intensa.
Su tutto prevale comunque la bellezza della musica di Bellini, un Bellini sublime, quasi metafisico, che fa un’operazione di trasposizione musicale degli affetti; unisce le due espressioni dell’anima romantica: l’impeto nobile e virile e la tenerezza patetica, riserva la musica più commovente alla scena della follia, quella più convenzionale alla cabaletta risorgimentale “Suoni la tromba”, e quella più brillante al coro femminile.
La continuità e compattezza della narrazione, che mantiene il colore storico, sono frutto di cura armonica e di accurata articolazione del tessuto strumentale.
Tutte le caratteristiche di questa partitura, piena di grande musica in bilico tra il belcanto e il grand-opéra francese, sono uscite a tratti dalla lettura di Giacomo Sagripanti, al suo debutto nella direzione de I Puritani; il ritmo sostenuto, le sonorità a volte troppo alte dell’orchestra Filarmonica Marchigiana, qualche imprecisione del corno, si sono alternati con il ricamo orchestrale sotto i dialoghi, la morbidezza nell’accompagnamento delle arie melodiche, le atmosfere sospese nella scena della follia.
La scenografia semplice e austera con qualche simbologia, disegnata da Guido Buganza, sicuramente in concordanza con l’idea registica, si sviluppava su due piani, sia per mostrare azioni in contemporanea sia per tenere separate le due sezioni (maschile e femminile) del coro.
L’austerità si ripeteva nei costumi (ideati da Margherita Baldoni) delle masse corali: tuniche monacali nere con cuffie e grandi collari bianchi per le donne, cappelli e abiti puritani neri con collarini bianchi per gli uomini, bianco l’abito della sposa, rosso quello d’Enrichetta, scure le armature, qualche tocco di bianco e di rosso per spezzare il grigiore.
Il regista Carmelo Rifici ha fatto sfilare due bare portate a spalla all’inizio dell’opera, ha avuto qualche idea originale, ma si è tenuto sul classico, forse avrebbe dovuto curare di più l’esternazione dei sentimenti umani. Complici le luci di Fabrizio Gobbi.
Nell’insieme una bella recita che ci ha coinvolto.

Curiosità storiche

Il tenore Mario Tiberini fu uno dei massimi interpreti del ruolo di Arturo nell’800. L’ha debuttato nel 1854 a San Juan de Puerto Rico, prima tappa e prima opera in suolo americano. Dal 1854 al 1874 l’ha cantata per ben 18 stagioni liriche in America, Spagna, Inghilterra, Italia, Francia, ottenendo ovunque larghi consensi. Per le serate londinesi, dove Tiberini cantò con la moglie Angiolina Ortolani, il giornale milanese Il Trovatore del 5 Maggio 1861 scrive “Tiberini riportò una seconda vittoria al Covent Garden ne’ Puritani. Egli ha suscitato ancor più entusiasmo che nella Favorita". A Trieste larghi consensi vengono riservati alla coppia Tiberini: lei, Elvira elegante, suasiva, non travolgente; lui, erede di Moriani e tenore dalle messe di voce rapinose, degne dei palpiti romantici di Arturo. Nel 1868 Mario e Angiolina la cantano anche al Théâtre Italien  di Parigi, dove I Puritani videro la luce nel 1835.