giovedì 27 febbraio 2020

Milano La Scala Il Trovatore


Milano, Teatro alla Scala

IL TROVATORE 
di Giuseppe Verdi

15 febbraio 2020


  Analisi di Giosetta Guerra  



  Per un incastro di epoche Manrico va al museo tra le armonie cromatiche dell’arte. 


Per il 500° anniversario della morte di Raffaello Sanzio il regista Alvis Hermanis ambienta l’opera in una pinacoteca, che raccoglie i migliori quadri della pittura italiana del Rinascimento, Raffaello in primis.
I personaggi principali, vestiti da guide museali con la bacchetta in mano, si fermano davanti ai quadri e, anche se non c’entra niente, narrano ai visitatori in abiti moderni, in piedi o seduti su divanetti, interpretati dai coristi, la drammatica storia dei bimbi scambiati e le fosche vicende ad essa collegate.  Il regista, autore anche della scenografia insieme a Uta Gruber-Ballehr, fa scorrere in varie direzioni dei pannelli con quadri per variare la scena, che comunque non definisce gli ambienti descritti da Cammarano, ma dà una nutrita panoramica della pittura rinascimentale. L’impatto visivo è piacevole, ma porta fuori strada. Lo sgomento cresce quando, con il principio del flashback, tutti i personaggi vengono ogni tanto catapultati nel XV secolo con magnifici purpurei costumi di velluto, di foggia rinascimentale, e copricapo simili a quello del Duca Federico da Montefeltro nel quadro di Piero della Francesca. 
Questo incastro di epoche, come nel famoso film di Benigni e Troisi del 1984  Non ci resta che piangere”, pur nel rispetto delle convenzioni estetiche, non favorisce certo la comprensione della trama, oltremodo intricata e romanzesca, ma la musica di Verdi in questa sua opera della trilogia popolare è talmente bella e nota che quasi quasi si preferisce ascoltarla tra le armonie cromatiche dell’arte che nelle fosche tinte del dramma.
Le unità spaziali sono suggerite dalla disposizione delle masse e dei pannelli, dalla profondità del palcoscenico e dal disegno luci di Gleb Filshtinsky.
Spicca il contrasto cromatico fra l’abbigliamento contemporaneo e i costumi tradizionali, che invece si abbinano con l’ambiente colto e raffinato del museo. Comunque nulla risponde ai dettati del libretto.
Belle le scene a lungo campo col rosso dominante, colore che suggerisce l’idea del fuoco e del sangue, senza mostrare la pira che arde, né i guerrieri con armature.
Il Trovatore ha uno spessore sia musicale che psicologico. 
La musica scaturisce da un’inventiva melodica che si scioglie in un canto appassionato ed eroico, fino a scoppiare in ardite cabalette.
I personaggi delle opere liriche del periodo romantico sono giovani ed eroici, ma i compositori hanno scritto per loro pagine che richiedono una vocalità importante, per cui gli interpreti devono combinare credibilità scenica e grande voce.
Purtroppo non si sono rilevate eccellenze qui sul versante vocale.
Nel ruolo del  Conte di Luna, giovane gentiluomo aragonese, il baritono Massimo Cavalletti esibisce un bel timbro vocale e una linea di canto morbida, canta bene, sul fiato e tiene a lungo i suoni acuti, ma quando li forza gli diventano un po’ ballerini ("Tace la notte" terzetto finale atto I) e anche il canto a voce piena non brilla per fermezza (Aria “Il balen del suo sorriso).
Leonora, dama di compagnia della Principessa d'Aragona, è una prima donna con una vocalità ancora belcantistica, sulla scia della donizettiana Lucia. Il soprano Liudmyla Monastyrska, che qui impersona una guardiana o una guida del museo, ha la melodia nel canto, ma nel notturno del prim’atto, la Cavatina “Tacea la notte placida”, presenta gravi flebili, medi ingolati, voce tremolante, acuti pieni; nella cabaletta con orchestra frizzante “Di tale amor” esibisce voce duttile, belle scale discendenti in tessitura acuta, gorgheggi pieni, ma suoni intubati in zona media; sfodera voce carismatica nella grand’aria del quart’atto “D’amor sull’ali rosee”.
Manrico, ufficiale del principe Urgel e presunto figlio di Azucena, è appannaggio del noto tenore Francesco Meli. Fin dal canto iniziale da fuori campo accompagnato dall’arpa, il tenore evidenzia un mezzo vocale esteso, di bel timbro, ma vacillante in tessitura acuta; Meli sa fraseggiare, ammorbidire con sensibili mezze voci e conosce la tecnica della messa di voce, ma spesso esprime la tinta eroica col canto di fibra e purtroppo il canto troppo teso e di forza gli gioca un brutto scherzo nella “pira”.

Azucena, zingara della Biscaglia, è anch’ella una guida museale che canta la Canzone “Stride la vampa” davanti ad un quadro con la bacchetta in mano di fronte a un gruppetto di visitatori, forse trasecolati ma immobili. Il mezzosoprano Violeta Urmana, non credibile come personaggio perché nulla emerge teatralmente della sua visceralità e della sua tragica vita, ha voce densa e screziata, frecciate acute lancinanti, ma i suoni sono volte intubati e non sempre fermi, tuttavia l’interpretazione è intensa grazie ad una tecnica d’emissione consolidata e all’esperienza della cantante.
Anche Ferrando, capitano degli armati del conte di Luna, è una guida museale che narra la storia dell’abbietta zingara. Nel ruolo si cala propriamente Riccardo Fassi, il giovane basso dotato di bella voce ampia e timbrata, ascoltato la scorsa estate al R.O.F., dove lo ritroveremo la prossima estate.
Ines, confidente di Leonora, è una guardiana, con la vocina di soprano di Noemi Muschetti, allieva dell’Accademia del Teatro alla Scala. Allievi sono anche il tenore Taras Prysiazniuk nel ruolo di Ruiz, soldato al seguito di Manrico e il basso Giorgi Lomiseli in quello di un vecchio zingaro. Il tenore Hun Kim è un messo.
I coristi, che dovrebbero rappresentare le compagne di Leonora, le religiose, i familiari del conte, gli uomini d'arme, gli zingari e le zingare, non hanno una definizione nitida, ma scenograficamente compongono dei suggestivi tableaux vivants (cantano “Vedi, le fosche notturne spoglie” seduti a terra riempiendo in modo armonico tutto lo spazio di un palcoscenico allungato) e vocalmente restituiscono un amalgama sonoro di alto pregio.
Il Coro del Teatro alla Scala, preparato dal M° Bruno Casoni, si esprime magnificamente, con pienezza del suono nel canto vigoroso, delicatezza in quello morbido, nelle mezzevoci e nei suoni sommessi del Miserere, precisione tecnica nel canto sillabato e ritmato.
L’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta dal M° Nicola Luisotti, si mantiene per lo più morbida e sensibile, frizzante nelle cabalette, piangente nel dramma, lacerante nelle rimembranze, ma a volte i suoni sono gonfiati e il volume cresce con la tensione del canto.

E allora si avverte una certa competizione tra il canto e l’orchestra quando gli animi sono infuocati, come nel terzetto d’amore e gelosia, Conte-Manrico-Leonora, nel finale dell’atto primo, e nel duetto Manrico-Azucena, nei quali l’orchestra è inizialmente duttile e discreta per lasciar libero sfogo alle voci, ma poi passa a forti sonorità col crescer della tensione e le voci si lanciano in un canto tirato e di forza.


Foto di 
Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

CLICCARE SULLE  FOTO PER INGRANDIRE


venerdì 21 febbraio 2020

Scala MI Roméo et Juliette



Milano, Teatro alla Scala

Roméo et Juliette


















Opera in cinque atti, Libretto di Jules Barbier e Michel Carré, Musica di Charles Gounod
(recita del 16 febbraio 2020)

  Recensione di Giosetta Guerra  



Vittorio Grigolo è Romeo, l’eroe amoroso, 
bello, esuberante e bacione.















La scena aperta mostra subito la piazzetta di Verona popolata dal coro in costumi d’epoca rossi, verdi e beige, che nel Prologo cantato evoca il dramma imminente.
L’allestimento, firmato da Bartlett Sher,direttore del Lincoln Center Theatre di New York, è una Produzione del Metropolitan Opera di New York, già presentato alla Scala nel 2011.
Non c’è niente di più fastidioso in un’opera che fermarsi a cambiare il set. Qui non ci si ferma quasi mai. Sei in questo spazio da sogno, senza fermarti”, afferma Bartlett Sher e il regista Dan Rigazzi nel curare l’attuale spettacolo rispetta quest’idea. Pertanto i piccoli cambiamenti avvengono in diretta.

La scenografia di Michael Yeargan non definisce ma suggerisce gli ambienti differenziandoli con arredi ed elementi specifici, quindi su una scena fissa per la festa si vedono giovani con mascherine sugli occhi, per il mercato donne con grandi ceste piene di frutta e verdura, un grande lenzuolo bianco viene steso per simulare il letto della camera di Juliette, che poi la ragazza si gira addosso come un sudario, viene portato un altarino per le nozze e vengono introdotti dei carretti per i cadaveri degli uccisi in duello e dei catafalchi per la scena della morte. 

 

Al centro c’è una pedana dove si svolge gran parte dell’azione: le danze a tempo di valzer delle dame e dei cavalieri alla festa mascherata di casa Capuleti, gli incontri degli amanti, i duelli dei rivali, il mercatino, il matrimonio vero e quello voluto dal conte, c’è una colonna centrale e c’è il balcone di Giulietta e su entrambi si arrampica Romeo. 



I costumi settecenteschi di Catherine Zuber sono belli e colorati con prevalenza del colore rosso e contribuiscono a restituire suggestive scene d’insieme, con la complicità delle luci di Jennifer  Tipton, riprese da Andrea Giretti. Elegante e tenero l’abito bianco rosato con strascico di Juliette, da eroe romantico quello di Roméo con una camicia bianca a larghe maniche, che mi ricorda quella di Don Giovanni indossata da Ramey allo Staatsoper di Amburgo tanti anni fa. 
Curati i movimenti coreografici di Gianluca Schiavoni, abilissimi nel maneggiar la spada, come in un film americano di cappa e spada, gli artisti istruiti dal Maestro d’armi B.H. Barry.

Opera scenicamente complessa, che richiede artisti giovani, agili e prestanti. E qui ci sono.

Vittorio Grigolo e Diana Damrau sono gli interpreti di riferimento per i due amanti di Verona che si sono esibiti insieme al Met.
Vittorio Grigolo, una star contesa dai grandi palcoscenici teatrali e televisivi, baldanzoso Duca di Mantova in Rigoletto e tenero Nemorino ne L’elisir d’amore alla Scala e all’aeroporto di Malpensa, è l’eroe amoroso e appassionato di Gounod, come lo fu nell’800 il tenore Mario Tiberini. E di Grigolo si può dire ciò che allora di Tiberini scrisse il Menestrello su Il Trovatore il 21 dic. 1867 per la prima alla Scala dell’opera: “superbamente grande come cantante e come attore, commovente per sentimento e per espressione drammatica, ebbe momenti tali da sollevare il pubblico tutto ad entusiasmi. Nel bellissimo duetto del IV atto, ebbe slanci felicissimi, qui toccò l’apice dell’arte e della passione”. Vittorio Grigolo ha bella voce robusta ed estesa di tenore che si espande con facilità verso la tessitura acuta e sovracuta con bei filati e tenuta del suono.
Pone grande enfasi nel canto appassionato, con attacchi impetuosi, modulazioni carnose, assottigliamenti sensuali, effetti di sottovoce, di smorzati e di morendo che captano l’attenzione del pubblico. Interprete oltre che cantante, nell’invettiva infuocata alla morte di Mercuzio trasmette la disperazione con grande impeto nel canto, parola scandita, ampiezza del suono. Usa la voce con sentimento, effusione, buona tecnica, corretta pronuncia francese anche nei suoni nasali. Lui è una forza nel canto spiegato e a piena voce spinta al massimo e ricca di pathos.
Agilissimo fisicamente, si arrampica sul balcone, sale sulla base della colonna e ne discende con un salto abbastanza alto. Dotato di senso teatrale è anche un bravissimo attore.























Gli si muove accanto la delicatissima figura di Juliette, ben impersonata da Diana Damrau, un soprano scintillante con gorgheggi scanditi, con un mezzo vocale agile, di poco spessore, consistente negli slanci acuti, evanescente nel registro grave, come evidenziato nella nota aria Je veux vivre.




Le Comte Capulet è interpretato dal baritono Fréderic Caton in modo corretto, ma con poco volume vocale; Nicolas Teste nel saio di Frère Laurent evidenzia una bella voce di basso rotonda e gradevole, a volte coperta dall’orchestra, 

















Mattia Olivieri è un bravo baritono sicuro nel ruolo di Mercutio.

Elemento da attenzionare è il mezzosoprano emergente Marina Viotti, sorella del direttore, nel ruolo en travésti del paggio Stéphano; la cantante che ha recentemente vinto l’Opera Award a Londra come “Best young singer”, è dotata di voce sonora e pulita, di bel colore e con armonici, è abile nelle mezze voci, nei suoni sostenuti, nelle magnifiche espansioni acute a piena voce.
Ha buona voce anche l’emergente tenore russo Ruzil Gatin nei panni di Tybalt.
Sara Mingardo presta a Gertrude una voce pastosa di mezzosoprano dal bel colore ma ha poco fiato, Le Duc di Jean-Vincent Blot ha un buon colore di basso ma è un po’ corto, Edwin Fardini è Le Comte Paris, Paolo Nevi è Benvolio, il baritono Paul Grant è Gregorio. 
Il Coro del Teatro alla Scala, ottimamente preparato e diretto dal Maestro Bruno Casoni, è coprotagonista di questa pregnante coralità, che a volte ricorda le atmosfere del Faust, e vi si immerge con la morbidezza delle mezze voci, con la ricchezza del canto a piena voce, con la magnificenza dei suoni in tessitura acuta della sezione femminile, con le voci calde e corpose della sezione maschile, con la restituzione di atmosfere ferali a sostegno della disperazione di Romeo dopo la morte dell’amico del cuore, il tutto con un perfetto amalgama sonoro. Bravo!
La brava Orchestra del Teatro alla Scala, diretta con classe e sicurezza da Lorenzo Viotti, entra con grande professionalità nella varietà dei temi e delle atmosfere della scrittura del compositore francese.
Dai tempi dilatati della tristezza, a quelli festaioli e danzanti della festa del conte, dal dinamismo del terzetto tra amici, che musicalmente ha il ritmo del quartetto degli zingari di Carmen, alla dolcezza dei brevi intermezzi, dalle sonorità dense e vibranti nei duetti degli amanti, alla compattezza del tutto orchestrale. Brava!
Presente a teatro Tony Renis, amico del protagonista.
           
L’opera Roméo et Juliette era andata in scena alla Scala solo quattro volte: nel 1867 con la direzione di Alberto Mazzucato e col tenore Mario Tiberini al suo debutto nel ruolo protagonista, nel 1874 con la direzione di Franco Faccio, nel 1911 con la direzione di Tullio Serafin e nel 1934 con la direzione di Gabriele Santini, la regia di Mario Frigerio e Mafalda Favero e Beniamino Gigli protagonisti. 

 
credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

venerdì 14 febbraio 2020

Fano T. Fortuna prosa Otto donne e un mistero



Fano Teatro della Fortuna
Otto donne 
e un mistero
commedia thriller tutta al femminile


















7 febbraio 2020

Recensione di Giosetta Guerra

Otto donne di differenti generazioni appartenenti a una ricca famiglia francese si preparano al Natale in una grande villa di campagna, lontana dalla città, quando una di loro, aprendo la porta di una camera al piano superiore, scopre il corpo esanime del capofamiglia Marcel con un pugnale conficcato nella schiena.
Panico totale. Impossibile chiamare la polizia, perché i fili del telefono sono tagliati, impossibile raggiungere la città perché l’automobile è stata manomessa. Nessuno può essere entrato perché la villa è isolata dalla neve. Solo una delle otto donne può essere l’assassina.
Cominciano le indagini, escono confessioni scomode, vengono a galla segreti, ambizioni, desideri e sentimenti sempre celati, piovono accuse, si scoprono personalità diverse e ci si rende conto di quanta ipocrisia, omertà e sfiducia ci siano in quelle persone, incapaci di relazionarsi col cuore.
La stessa morte del capofamiglia è frutto di una macchinazione segreta perpetrata da Catherine, la figlia minore, la quale in accordo con il padre ha simulato un assassinio per avere delle conferme.
E tutte ci sono cascate e tutte hanno rotto il freno del silenzio, tanto ormai Marcel non poteva più sentire.
E invece no, Marcel le sente e come. Dietro la porta di quella camera lui, vivo e vegeto, ascolta tutto, scopre il groviglio di vipere che soffoca la sua famiglia e prende una decisione. Infatti, quando la ragazza svela la sua macchinazione lasciando tutte congelate, la porta della camera si apre e, prima che Marcel esca, si sente un colpo di pistola. Si uccide, lo uccidono, o è ancora una finzione? Boh! Mistero. Pirandello docet.
Questa commedia thriller di Robert Thomas del 1968, tradotta da Anna Galiena, con l’adattamento di Micaela Mino, e prodotta da La Pirandelliana, Compagnia Molière, ABC Produzioni, necessita di interpreti di alto livello per tenere il pubblico costantemente sul filo del rasoio.
E qui c’è un cast di bravissime attrici: Anna Galiena Gaby, Debora Caprioglio Augustine, Caterina Murino Pierrette, Paola Gassman Mamy, Antonella Piccolo Sig.ra Chanel, Claudia Campagnola Suzanne, Giulia Fiume governante della casa e Louise, Mariachiara Di Mitri Catherine, che, dirette dal regista Guglielmo Ferro, entrano con sarcasmo nei singoli personaggi esasperandone le peculiarità e tengono alta la suspence con ritmo serrato e sostenuto.
La figura centrale è la vecchia signora della villa, suocera di Marcel, un’irriconoscibile Paola Gassman interpreta con padronanza scenica questa figura inquietante, assassina del marito, che bara sul suo stato di salute, seduta sulla sedia a rotelle, che alla fine abbandona e cammina e nasconde i suoi averi per non aiutare suo genero.
Impressionante è la trasformazione della zitella Augustine, sorella di Gaby, finta malata di cuore e odiatrice degli uomini, pur circuendo suo cognato: da introversa, acida, nevrastenica, invidiosa e malvestita “badante” della madre a una prorompente donna sexy come è in effetti la Caprioglio, un personaggio complesso che l’attrice delinea con dovizia di particolari e rendendo stupefacente il cambiamento. Anna Galiena è un’elegante e distaccata padrona di casa, moglie adultera di Marcel, nonostante lui mantenga in casa anche la sorella e la madre di lei, che scopre di dividere il suo amante con Pierrette, la sorella di suo marito. Caterina Murino rende bene l’ambiguità di Pierrette, sorella ritrovata della vittima, ex spogliarellista con debiti saldati dal fratello. Giulia Fiume incarna con maestria il personaggio subdolo della governante servizievole e cinica, amante di Marcel e segretamente innamorata della di lui moglie Gaby. Claudia Campagnola è una dinamica e variegata Suzanne, presunta primogenita di Marcel, che conduce il ritmo della pièce, improvvisandosi ispettrice di polizia e sconvolgendo drasticamente la famiglia con la confessione choc di essere incinta del presunto padre. Mariachiara Di Mitri interpreta agevolmente il ruolo di Catherine, la figlia minore di Gaby e di Marcel. Antonella Piccolo entra bene nel carattere contorto della Sig.ra Chanel, cuoca e governante, amante di Pierrette e gelosa dei rapporti di quest'ultima con Marcel.
Insomma un vero manicomio. 
Tutte le attrici rispettano il meccanismo di questo dramma noir studiato per captare l’attenzione del pubblico, con un dialogo serrato e colpi di scena, tengono alta la suspense della struttura drammaturgica senza tralasciare la veste sarcastica e comica dell’ingranaggio.
La scenografa Fabiana Di Marco costruisce un interno imponente in legno su due piani, diviso in vari ambienti arredati, dall’atmosfera un po’ inquietante, tipo Arsenico e vecchi merletti; il disegno luci di Aliberto Sagretti rispetta il clima sombre della pièce, i costumi ideati da Françoise Raybaud sono di foggia retrò. Le musiche di Massimiliano Pace completano l’allestimento.
Bello, coinvolgente, di grande presa.
Il pubblico, che non ha battuto ciglio per tutto lo spettacolo, ha fatto un salto sulla sedia al colpo di pistola finale.