giovedì 27 dicembre 2012

Modena - Concerto dell'Ass. Mario del Monaco

Modena

Concerto lirico dell’Associazione Mario

 del Monaco

(19 dicembre 2012)

Di Giosetta Guerra

In un edificio della periferia di Modena, in un ambiente lontano dall’essere una sala da concerto ma comunque accogliente e piena di gente, si è svolto il 19 dicembre 2012 un pregevole concerto vocale, organizzato dall’Associazione Lirica Mario Del Monaco di Modena in collaborazione col Centro sociale anziani e orti Buon Pastore.
Un concerto prevalentemente verdiano per quattro voci maschili (due baritoni, un basso e un tenore), visto che il soprano Jessica Nuccio, moglie di Piazzola, non ha potuto cantare a causa di disturbi dovuti alla sua gravidanza.  
In grande forma il ventiseienne baritono Simone Piazzola ha sfoggiato un mezzo vocale ampissimo, una linea di canto morbidissima, un fraseggio variegato fino al canto a fior di labbro, fiati lunghissimi e sostenuti (La Traviata: Mio figlioDi Provenza), suoni ben appoggiati, passaggi in maschera, interpretazione pregnante (Don Carlo: Per me giunto è il dì supremo…io morrò), pulizia e sicurezza del suono nella tessitura acuta (Donizetti, Lucia di Lammermoor : Cruda funesta smania). Un grande artista con un miracolo di voce!
Un basso coi fiocchi è Francesco Ellero D’Artegna, che ha recentemente festeggiato i suoi “Trent’anni d’Arena”. Colore vocale straordinariamente accattivante, fermezza e rotondità del suono, gravi poderosi, emissione morbida per Il lacerato spirito da Simon Boccanegra (favoloso); una valanga di voce, estesissima e vibrante di calore è emersa nell’aria O tu Palermo da I vespri siciliani ; voce importante e possente con imponenti progressioni verso la tessitura acuta per l’aria di Filippo II Ella giammai m’amò da Don Carlo, quasi una  sommessa confessione a se stesso carica di tristezza e di rassegnazione, che richiederebbe un canto sfumato nelle frasi più laceranti; corpo vocale enorme e di gran peso per La Calunnia da Il Barbiere di Siviglia di Rossini, che andrebbe corredata di espressioni del viso e degli occhi più che di movimenti del corpo.

Bel timbro scuro e corposo quello del baritono Donato Di Gioia, che possiede anche estensione vocale e bellissimo modo di porgere (Donizetti, Don Pasquale: Bella siccome un angelo), ottima cantabilità e sostegno del fiato (Bellini, I Puritani: Ah, per sempre io ti perdei); artista versatile sia sul piano vocale che su quello attoriale, ha fornito un’ottima interpretazione del monologo di Ford È sogno o realtà da Falstaff  di Giuseppe Verdi.

Il tenore Giuseppe Varano, appena arrivato da un paese gelido, ha avuto qualche problema con la tenuta degli acuti, forse non si era ancora acclimatato, o forse la causa di base potrebbe essere il modo di cantare sempre spinto, col fiato e non sul fiato, che porta inevitabilmente la voce a spezzarsi negli acuti. Bello è l’accento eroico, il cuore esce nella foga del canto, il volume c’è e il timbro è buono, ma la tecnica andrebbe rivista.  Nonostante qualche addolcimento delle frasi, il canto di fibra non gli ha fatto evitare delle forzature che l’hanno tradito in zona acuta nell’aria  Ma se m’è forza perderti da Un Ballo in maschera;  la voce era tirata all’estremo anche in Luisa Miller (Quando le sere al placido, aria che richiederebbe attacchi morbidi e un fraseggio sfumato fino al canto sussurrato); il tenore ha dosato meglio i suoni e la tenuta del fiato in Traviata (Lunge da lei), ma, viste le precedenti défaillances, doveva assolutamente evitare Di quella pira da Il Trovatore, che non gli ha dato proprio soddisfazione e neanche a noi. 

 
Poi i duetti: Oh Mimì tu più non torni da Bohème di Puccini col bel timbro del Varano e la morbidezza del canto del Piazzola, l’intenso duetto Rodrigo – Filippo Restate da Don Carlo, con due titani a confronto, Piazzola e Ellero D’Artegna, voci estesissime e timbratissime usate in modo eccellente, canto sempre sul fiato che arriva al cuore.

Bravissima la pianista Giuliana Panza che ha saputo creare le atmosfere adatte ad ogni brano ed ha annunciato i titoli nella prima parte, nella seconda è invece subentrato Renato Ghelfi Zoboli, vice presidente dell’Associazione e organizzatore della serata insieme a  

Marco Impallomeni

che ne è il Presidente 

e a Simone Piazzola che ne è membro.                                                                                                      

Al termine targhe agli artisti.

Presenti in sala varie autorità e anche la brava maestra di canto di Piazzola, il soprano Alda Borelli Morgan, che in gioventù ha cantato anche con Mario Del Monaco.




Dopo il concerto, un gruppo di volontari ha sgomberato la sala per far posto ad un’ampia tavolata per la cena con le specialità locali cucinate sul posto.

lunedì 10 dicembre 2012

Cecilia Bartoli alla Scala






Milano - Teatro alla Scala

(lunedì 3 dicembre 2012)

 

Inaugurazione della stagione 2012-13 della Filarmonica della Scala con un concerto  diretto da Daniel Barenboim.

 

Cantante solista 

 

Cecilia Bartoli 

 

(bella, brava e virtuosa)

 

  Di Giosetta Guerra

 

 

Sono rare le sue presenze nei teatri italiani, è difficilissimo trovare posti per i suoi concerti, ma stavolta ce l’ho fatta. Nonostante i pareri discordi sulle sue qualità (vocali o artistiche?), Cecilia Bartoli è un personaggio che tutti conoscono e che tutti vorrebbero ascoltare almeno una volta nella vita. La sua voce, si sa, non ha un gran volume, ma l’arte di usarla è magistrale. Inoltre l’intelligenza nella scelta del repertorio dimostra la consapevolezza delle sue possibilità, ottimizzate da uno studio costante e preciso, che l’ha portata ad essere un’icona del barocco e del canto di coloratura.

Il concerto ci ha dato quello che tutti sapevamo: un’orchestra preparata, un maestro talentuoso, una cantante simbolo. Pertanto inopportune e fastidiose sono state sia le sovrabbondanti ovazioni sia le stupide contestazioni. Sentire voci di bambini gridare “Brava” ripetutamente sapeva tanto di manovrato, sentir dire “Vai a casa” a un’artista, che ha studiato con diligenza e con intelligenza per raggiungere certi traguardi, solo perché non ha una valanga di voce, sapeva di faziosità e tendenziosità e nell’opinione dei presenti la contestazione ha avuto l’effetto boomerang.

Cecilia Bartoli, da gran signora, non ha perso lo smalto del suo sorriso, ha bissato il Rondò di Angiolina volgendo ogni tanto il viso al palchetto dei contestatori e tirando fuori più voce, almeno così mi è sembrato visto che dal quarto ordine di palchi ero scesa in platea al bis proprio per verificare.

Superficialità da parte delle cronaca, che ha ampliato una notizia marginale glissando sui meriti individuali, ma è cronaca e non critica musicale ed è la cronaca che fa vendere i giornali.

Cecilia Bartoli è un’artista nota in tutto il mondo per l’aderenza stilistica alla prassi esecutiva barocca e al vorticoso canto di coloratura, c’è chi l’adora, c’è chi la contesta, ma tutti vogliono vederla e ascoltarla almeno una volta dal vivo.

Io l’ho trovata più bella, più giovane e più virtuosa di quando l’ascoltai dal vivo la prima volta a Vienna ne Il trionfo del tempo e del disinganno diretta da Harnoncourt. Certo un pelino di voce in più mi avrebbe mandato in delirio. 

Analizziamo dunque il concerto. 

La serata si apre con una composizione giovanile di Wolfgang Amadeus Mozart, la Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore K 319, per due oboi, due fagotti, due corni e archi, nella versione viennese, cioè con l’aggiunta del minuetto. L’atmosfera è solare, leggiadra e frizzante: dalla morbidezza e compattezza orchestrale emerge la sincronia degli archi, che nel secondo movimento (Andante moderato) esprimono il clima di serenità con un fraseggio largo e dilatato, i tempi mossi del minuetto sono staccati dalla voce calda dei corni e la vivacità del Finale (Allegro assai) è realizzata dalle volatine e dalle fitte arcate dei violini e dagli interventi dei fiati.

Accolta in palcoscenico da scroscianti applausi, Cecilia Bartoli, solare e comunicativa, fasciata da un sontuoso abito da sirena, verde smeraldo, decolleté e con strascico, purtroppo drappeggiato orizzontalmente, offre come biglietto di presentazione un saggio di belcantismo eccezionalmente virtuoso.

Nel recitativo e aria di furore di Agilea "Ah, che sol per Teseo...M'adora l'idol mio", da "Teseo" di Georg Friedrich Händel, per soprano, un oboe e una piccola tromba, cembalo e archi, esibisce una voce di soprano leggero di coloratura di grande agilità, con fiati lunghissimi, morbidezza nel porgere, dimestichezza col canto sbalzatissimo anche in gara acrobatica con l’oboe obbligato, suonato da Fabien Thouand, che ha molti interventi solistici.

Poi la Bartoli esegue con vocalità più pastosa, gravi morbidi, suoni rotondi anche nella mezza voce l’aria di Piacere "Lascia la spina, cogli la rosa ", per soprano, due oboi, cembalo, archi, da "Il Trionfo del Tempo e del Disinganno", che ha la melodia indimenticabile di “Lascia ch’io pianga” da Rinaldo; cantata e suonata quasi completamente a mezza voce l’aria incanta e rapisce.

Di seguito la Bartoli si cimenta nel recitativo e aria di Melissa "Mi deride...Resterò dall'empia Dite", da "Amadigi" di Händel, per soprano, un oboe, una tromba, cembalo, archi, applicando la sua abilità assoluta nel canto di sbalzo, con maggior grinta e con un modo di porgere più intenso, certo un maggiore spessore vocale e una maggiore pienezza del suono avrebbero sprigionato tutto il vigore e la potenza di quest’aria di scongiuro, abbellita da uno scintillante dialogo tra oboe e tromba suonata da Francesco Tamiati 

Fa da intermezzo strumentale la Sinfonia prima dell'Atto III dell’Oratorio HWV 67 "Solomon" di Händel, intitolata "The Arrival of the Queen of Sheba", un unico Allegro per due oboi, cembalo, archi. La musica è gradevolissima, fa divertire il cembalista e ballare il direttore, bravissimi i due oboisti Fabien Thouand e Augusto Mianiti.

Ritorna Cecilia Bartoli con un look diverso: un costume maschile da Cherubino (redingote in velluto nero, camicia bianca con jabot e polsini con svolazzi, stivali alti e capelli raccolti a coda di cavallo), forse in omaggio a Mozart, di cui canta il Mottetto K 165 ''Exsultate, Jubilate”, per soprano, due flauti, due oboi, due corni, organo, archi, esibendo un corpo vocale denso ma piccolo nell’ Allegro, usando il fil di voce e i filatini in acuto per la soavità dell’Andante, esaltando le sue virtù vocali nell’acrobazia vigorosa e virtuosistica dell’Alleluia.

Breve pausa, poi ancora in scena per Rossini come mezzosoprano, con lo stesso abito verde e i capelli legati, deludendo le nostre aspettative, l’avremmo preferita coi bellissimi capelli lunghi fluenti sulle spalle e un morbido abito bianco lungo per impersonar Desdemona e Cenerentola divenuta principessa.

Da "Otello" di Gioachino Rossini esegue col fil di voce e coi filati il recitativo di Desdemona "O tu del mio dolore", sostenuta da un’orchestra delicata;  introdotta e sostenuta dagli arpeggi melodiosi dell’arpa di Olga Mazzia, canta molto bene la canzone del Salice “Assisa a’ pié d’un salice”, i suoni sono pulitissimi, il fiato sostenuto, i gravi rotondi, fa anche degli abbellimenti (I ruscelletti limpidi) e qualche suono più corposo è un po’ tremolante.

Poi da "La Cenerentola" Recitativo e Aria con Rondò di Angiolina "Nacqui all'affanno...Non più mesta" con roulades, variazioni pirotecniche, trilli eseguiti in modo funambolico, a parte qualche frase rallentata e con sillabe staccate per assecondare i tempi lentissimi staccati dal maestro Barenboim. Rondò bissato a furor di popolo.

Per concludere la notissima Sinfonia n. 40 in sol minore K 550 di Mozart, che Barenboim ha diretto in modo estatico, completamente immerso nel caleidoscopio delle articolazioni armoniche e melodiche, che la brava  Filarmonica della Scala materializza in sonorità dense e corpose per i momenti più grevi e in suoni aerei e leggeri per la solarità del Minuetto e dell’Allegro assai del Finale.

La Bartoli non si è presentata in palcoscenico al termine del concerto.

 

(le tre foto del concerto sono di Silvia Lelli




domenica 2 dicembre 2012

Iesi-Lucia di Lammermoor



Jesi Teatro Pergolesi 
 Lucia di Lammermoor di Donizetti
(25-11-12)

Anche i giovani possono essere grandi


Di Giosetta Guerra

Nel difficile ruolo di Edgardo si è esibito a Jesi Gianluca Terranova, il tenore che ha interpretato Caruso nella recente fiction televisiva. Terranova è un vero cantattore, è un bel giovane, è espressivo, si muove con padronanza del palcoscenico, ha una bella canna di voce che usa con generosità e con passione, il timbro è bello, lo squillo luminoso e robusto, l’emissione esuberante, la dizione chiara, l’accento eroico, il canto di fibra comunica il lacerato spirito di Edgardo e, una volta perfezionata la tecnica del canto sul fiato, riuscirà anche a trasmettere il pathos con l’uso della mezza voce e del canto a fior di labbro.

Il ventitreenne soprano georgiano Sofia Mchedlishvili (impossibile da pronunciare, dovrebbe prendere un nome d’arte) (Lucia) ha già dimestichezza con l’arte del belcanto, brilla nei virtuosismi, svetta negli acuti e sovracuti, esegue con facilità scale cromatiche, cadenze, riprese con variazioni, usa la messa di voce; la tecnica è ineccepibile, ma la voce, che diventa bella quando si espande nelle progressioni acute, ha bisogno di maturare e di acquisire spessore e pastosità nella zona medio grave.

Nella lunga scena della follia, introdotta e accompagnata nella cadenza dal suggestivo suono dell’arpa posizionata nel palchetto destro di proscenio, la Mchedlishvili, scarmigliata, sbaffata, spiritata, ha cantato anche sdraiata (Alfin son tua) accanto al cadavere di Arturo, che il regista ha fatto rotolare paurosamente giù dalle scale (che rotolone…era un figurante, che coraggio!).

Bravissimo Julian Kim, un ottimo baritono di soli 26 anni che nel ruolo di Lord Enrico Ashton si è imposto per bellezza, estensione e spessore vocali, per la morbidezza della linea di canto e per la sicurezza del gesto.

Grande voce tridimensionale dal timbro eroico, colore splendido, suoni ampi e rotondi, gravi pieni, formidabili acuti tenuti a lungo, canto sempre sul fiato con ottima proiezione del suono, dizione chiarissima, accento scolpito, prorompente ed energico nei duetti con Lucia, favoloso nella modulazione dei cantabili.

Il basso trentaseienne Giovanni Battista Parodi (Raimondo) ha una figura imponente,  canta la prima frase con voce poco ferma (Dolente vergin), ma poi gestisce con morbidezza un mezzo vocale ampio e corposo, di bel timbro scuro con note gravi consistenti; dovrebbe perfezionare il sostegno del suono e aprire di più il canto per non incupire i suoni. Il venticinquenne Alessandro Scotto Di Luzio (Arturo) è un tenore leggero acuto con buona dizione. Il ventiseienne mezzosoprano  Cinzia Chiarini (Alisa) ha voce robusta. Il ventottenne tenore fermano  Roberto Jachini Virgili (Normanno) ha esibito un bel timbro deciso e sicurezza del gesto.

Matteo Beltrami, alla guida della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana, è entrato or con enfasi or con morbidezza nelle pagine di grande musica, creando atmosfere musicali coinvolgenti e avvolgenti, lasciando spazio anche alle voci strumentali più scoperte (corno, arpa, flauto), ma anche non controllando a volte le alte sonorità.

L’impianto scenico era sulla linea delle altre due opere della stagione: uso di scenari neutri in maglia “psicoplastica” (come li aveva definiti Svoboda) per la proiezione di luoghi, ambienti e simboli (il mare, il sangue, una roccia impervia, le margherite, le candele) e trasparenti per la visione di posti e azioni in contemporanea (la preparazione delle nozze, le tombe), talvolta sollevati a metà per creare più profondità. Una grande scalinata occupava tutto il palcoscenico. Suggestiva la scena del parco: in una luce soffusa, sulle note cristalline dell’arpa posta in cima alla scalinata che seguono le onde del mare proiettate sul velatino, due fanciulle giocano a badminton, velatino che poi diventa un prato di enormi margherite bianche prese da La Traviata degli specchi di Svoboda. Inquietante la scena finale della morte di Edgardo che si accascia sul sipario caduto dall’alto, mostrando una visione cimiteriale di coristi a mezzo busto, allineati, sospesi nel vuoto, freddi ed immobili come le statue.


Henning Brockaus ha curato regia e luci, Benito Leonori ha ricostruito e variato le scene che Josef Svoboda aveva creato per Macerata, Patrizia Toffolutti si è occupata dei costumi (armature scure con elmetti argentati per il coro maschile, pastrani lunghi, gilè e pantaloni alla zuava per gli uomini, semplici vestitini per Lucia in verde e per Alisa in rosa, camicia da notte corta insanguinata per Lucia assassina, abiti da sera per gli invitati alle nozze, doppio petto bianco per Arturo di memoria petroliniana), Emma Scialfa delle coreografie un po’ scomposte.

Il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, preparato dal maestro Pasquale Veleno, si è destreggiato bene sia nel canto morbido delle pagine corali di grande presa ed alta estaticità sia in quello sillabato (Come vinti da stanchezza).

Cooproduzione coi teatri di Cremona, Como, Brescia, Pavia, Fermo, Novara, Ravenna.

 

Foto Binci Teatro Pergolesi di Jesi e Elio Crociani

Sempre per non dimenticare il passato.

Edgardo è stato il ruolo principe del tenore marchigiano Mario Tiberini. Dal 1854 al 1873 l’ha cantato in 21 stagioni liriche in America e in Europa. Dal 1860 in poi ha avuto come partner per Lucia la sua consorte, il soprano bergamasco Angiolina Ortolani, di cui il prossimo anno ricorre il centenario dalla morte.






sabato 17 novembre 2012

Jesi - Macbeth



 Teatro Pergolesi    di Jesi (AN) 

Allestimento ricco di trovate in un palcoscenico nudo

(11-11-12)

Il Macbeth delle facce bianche

Di Giosetta Guerra


L’avidità non fa guardare in faccia a nessuno, tanto vale aver di fronte facce tutte uguali, la follia annebbia la visione della realtà, che perde quindi colore, contorni, definizione, qualche sprazzo di lacerante lucidità serve a mettere a fuoco le nuove vittime o le allucinazioni dei misfatti.
Questo, secondo me, è il significato dell’allestimento del Macbeth di Verdi al Teatro Pergolesi di Jesi con le scene di Josef Svoboda riprese da Benito Lenori, le luci e la regia di Henning Brockhaus, i costumi di Nanà Cecchi, le coreografie di Maria Cristina Madau.
Allestimento ricco di trovate.
Il sipario si apre su un gelido spazio, tipo paesaggio lunare, popolato di streghe gesticolanti, di acrobati sospesi e corpi rotolanti, squarciato da lampi di luce bianchissima, rossa e blu.
Bella l’idea registica delle streghe funambole che si attorcigliano in aria su lenzuola bianche.  
Il palcoscenico è nudo e crudo, solo un artigianale trono regale dritto o ribaltato e un tavolo apparecchiato all’occorrenza, quinte incolori si muovono in ogni direzione, si fanno trasparenti od opache secondo la provenienza della luce, con la tecnica delle proiezioni diventano grigi muri ruvidi, bianchissime pareti lisce, grumosi pannelli lavici, accumulo di teschi e di fili spinati, groviglio di rami e di alberi.

Nella scena del  banchetto un gigantesco specchio riflette il teatro, il grande tavolo e i due protagonisti, ma lascia anche comparire sul retro le visioni del delirio di Macbeth. La scenografia di un grigiore assoluto definisce più l’atmosfera opprimente che gli ambienti. Squarci di luce lampeggiante acuiscono il senso di terrore, grigi o neri anche tutti i costumi, grigio chiaro per le bende che fasciano le quasi onnipresenti streghe.  In più le proiezioni effettuate dal davanti spesso investono anche i personaggi che appaiono come figure indefinite e traballanti.  
Tutti hanno la faccia dipinta di bianco.
I pochi elementi di colore sono i lunghi capelli rossi inanellati della Lady, le corone dorate e i mantelli rossi dei reali, l’azzurro della mensa imbandita, le immagini delle visioni. 

Con gli occhi della pazzia tutto è visto all’incontrario: per brillantezza del colore e nitidezza delle forme le visioni e le allucinazioni sono più realistiche della realtà stessa che è invece visionaria e allucinata.
Il regista avrebbe dovuto lavorare di più sui caratteri, avidità e follia generano mostri e la coppia dovrebbe essere fortemente caratterizzata nella gestualità e nell’espressione. Su questa linea la Lady spiritata e con gli occhi sbarrati è la più vera scenicamente, il re doveva essere più scavato dal tormento e Banco doveva essere più grintoso.
Anche vocalmente la Lady Macbeth di Tiziana Caruso è assolutamente credibile, non tanto per perfezione tecnica e vocale, quanto per la forza dell’accento, la potenza dell’emissione, lo scavo della parola. Il soprano ha esibito una voce graffiante, un po’ intubata nei gravi ma squarciante negli acuti (Vieni, t’affretta), una bella voce scura con zona acuta che ferisce, agile e scintillante nel Brindisi, meno plastica nella nota aria La luce langue (suoni sommessi inudibili, gravi vuoti, slanci acuti gridati). Ha modulato meglio la voce quando la follia era in stato avanzato, pur mantenendo l’aggressività e la potenza vocale, che qualche volta avrebbe potuto anche sciogliersi in filati, come fa la Theodossiou. Anche se l’emissione non è sempre fluida e spesso l’urlo è in competizione con l’orchestra, l’interpretazione viscerale della Caruso ha restituito una procace Lady violenta e assassina sia nella voce che nelle finzione scenica, una pazza in trance nella scena del sonnambulismo.
La voce ampia, piena ed estesa di Luca Salsi ben si adatta alla smania di grandezza di Macbeth. Il baritono canta bene, usa con vigore ma anche con morbidezza una voce grandissima, dai suoni puliti, rotondi, sostenuti, lunghi ed ampissimi e dalla zona acuta brillante e luminosa, grazie ad un fraseggio ora irruente e temperamentoso ora fluido e sfumato, all’intensità dell’accento basato sullo scavo della parola scenica. Imponente anche nel gesto. Linea morbida e fiati lunghissimi per  Pietà, rispetto, onore (e non amore come da libretto, l’ha detto e l’ha fatto).

Banco aveva la splendida voce del basso Mirco Palazzi; i suoni gravi penetranti e puliti, le magnifiche arcate con fiati lunghi e suoni sostenuti e ben udibili anche sopra le alte sonorità dell’orchestra (Come dal ciel precipita), la proiezione morbida della voce (Oh qual orrenda notte) hanno ottenuto consenso e ammirazione.
Sonorità generalmente altissime delle voci e dei suoni che comunque si amalgamano, si fondono e coinvolgono.

Pur essendo coreano, Thomas Yun (Macduff
ha esibito una buona pronuncia italiana, ma anche bel colore tenorile, accento incisivo, squillo robusto, dimestichezza col canto sfumato, buona linea di canto con le dovute smorzature e fiati tenuti (Ah, la paterna mano).
Dario Di Vietri (Malcolm) è un tenore acuto dal timbro un po’ aspro.
Il basso Carlo Di Cristoforo (medico) ha voce scura di bel colore ed espressione carica di spavento.
Miriam Artiaco (dama) è un sopranino pulito dai suoni un po’ stretti.
Andrea Pistolesi (domestico, sicario e araldo) è un baritono chiaro.

Magnifiche le atmosfere create dal coro lirico marchigiano “V. Bellini”, preparato da Pasquale Veleno, allettanti i quadri d’insieme. In Patria oppressa  la pienezza vocale è stata coinvolgente, il canto sul fiato con formidabile sostegno dei suoni sfumati e tenuti a lungo, la potenza nel canto pieno e la gestione morbida della voce, hanno caratterizzato la sezione maschile, ottima anche nel canto staccato, ritmato e sillabato.
Brave le streghe anche nel canto scandito (Tre volte miagola) ma il volume è poco.
Il M° Giampaolo Maria Bisanti ha diretto con foga e partecipazione un’orchestra incalzante, tormentosa, a volte troppo sonora. L’orchestra era la FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana.
Un bello spettacolo, come siamo soliti vedere al Teatro Pergolesi di Jesi.

Per ricordare gli artisti marchigiani del passato.
Mario Tiberini debuttò il ruolo di Macduff nel secondo cast di Macbeth agli inizi di carriera a Palermo il 13 dicembre 1852 col nome di Mariano Tiberini (nel primo cast c’era Antonio Pompeiani), accanto a Ettore Barili (Macbeth), Eufrosina Marcolini (Lady), Cesare Nanni (Banco), Paolo Mazza (Malcolm), Adelaide Orlandi (Dama), Giovanni Grifo (domestico), Francesco Rinaldi (medico).

martedì 6 novembre 2012



FANO  Teatro della Fortuna – Stagione di prosa

Furioso Orlando

Ballata in ariostesche rime 

per un cavalier errante

(21 ottobre 2012)

Servizio di Giosetta Guerra

Il multiforme ingegno di Stefano Accorsi

Dell’ultimo bacio appassionato amante, or d’eroiche gesta è narrator errante.
Di donne, cavallier, armi ed amore, è d’audaci imprese moderno cantore.

In ariostesco mondo Accorsi s’è calato, dove Ruggiero e Bradamante ha incontrato,
Medoro e Cloridano in terra ha trovato, indi Angelica ed Orlando un po’ turbato,
poi Astolfo, l’Ippogrifo e il Mago Atlante, che d’audaci imprese n’hanno fatte tante.
Per via, s’è perso anche in una selva oscura, ma Dante era proprio un’estranea figura.
Del moro Otello trovò il fazzolettino, che di Desdemona decretò il destino,
son luoghi e personaggi un po’ fuori tema, ma ad unirli è della gelosia il problema.

La narrazione in rima del “Furioso Orlando”, effettuata da Stefano Accorsi sul palco del Teatro della Fortuna di Fano, mi ha preso la mano e mi ha spinto ad iniziar lo scritto in “manzoniani” dodecasillabi, ma, ahi, quanto a continuar è cosa dura.

Stefano Accorsi, balzato all’attenzione del vasto pubblico col film di Muccino “L’ultimo bacio”, è attore di teatro dalla memoria formidabile. Per un’ora e mezza ha recitato un aulico testo in rima senza alcun supporto scritto, interpretando col gesto, con l’inflessione della voce (sommessa, urlata, declamata, ironica, violenta e affannosa per la pazzia di Orlando, mielosa per la maga Alcina) e con l’eloquente espressività delle mani, le azioni e i conflitti sentimentali dei personaggi che popolano l’Orlando furioso.


Il testo teatrale è una riduzione con manipolazione dei 38.700 versi del poema dell’Ariosto, effettuata da Marco Baliani, che ai fini teatrali ha concentrato l’attenzione sugli amori, le gelosie, la pazzia (non è cambiato molto dal 500 ad oggi), le gesta dei personaggi più noti, con contaminazioni letterarie tratte dalla Divina Commedia di Dante Alighieri e da Otello di Shakespeare, per alleggerire con l’ironia la fitta ed intricata vicenda. 
A rendere il monologo in versi leggero e scintillante ci ha pensato anche Stefano Accorsi che, novello paladino in abiti modernizzati, ha tenuto un ritmo narrativo sostenuto e brillante, ha usato lo spazio scenico con esuberante padronanza, ha mimato il duello dei paladini con i movimenti  tipici del teatro dei pupi e ne ha riprodotto voci e rumori, ha cambiato espressioni del viso e registri vocali, ha saltato, ha sudato, si è accasciato, è risorto, per una proiezione idealmente concreta di un mondo immaginario, che noi siamo riusciti a “vedere”.  Bravissimo! Ma…quando Orlando perde il senno e principia a togliersi l’armatura, beh,

non dovea limitarsi al sol corpetto, 
 ma avria dovuto denudarsi il petto.

(Nudo e pazzo come lo presenta Ariosto).

Accanto a lui un’attenta e discreta Nina Savary, in un bell’abito d’epoca, nei molteplici ruoli di cantante, musicista, rumorista e interlocutrice, ha cantato, ha accompagnato la recitazione dell’Accorsi col pianoforte, lo xilofono, il bandeon  e la chitarra e quasi un alter ego femminino dal marcato accento francese, si è interfacciata con lui con battute, riflessioni, critiche, domande. 

 
Merito del bel successo ottenuto va anche al light desiner Luca Barbati per il gioco chiaroscurale atto ad accentuare il mistero, a Bruno Buonincontri autore delle simboliche scene lignee essenziali ed efficaci, al costumista Alessandro Lai e al regista Marco Baliani.
Lo spettacolo è prodotto da Nuovo Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria.
La stagione di prosa fanese è realizzata dalla Fondazione Teatro della Fortuna in collaborazione con AMAT, con il sostegno di MIBAC e Regione Marche e con il patrocinio di Provincia di Pesaro e Urbino.

 guardare video su
https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=fNFvntmI5-o




lunedì 5 novembre 2012

 

Teatro delle Muse 

di Ancona  

Decennale e Premio Corelli

(28 ottobre 2012)
 

Di Giosetta Guerra
 
Il Premio Corelli quest’anno è stato inserito nei festeggiamenti del decennale del Teatro delle Muse,  celebrato con un'intera giornata di visite guidate, convegni, annullo filatelico speciale, pubblicazione di un volume fotografico sugli allestimenti di opere liriche e concerto serale, per il quale si sono ingaggiati tre soprani, nientepopodimenoché Dimitra Theodossiou, Jessica Pratt e Carmela Remigio, per far da corona al tenore premiato, Paolo Fanale. Che onore per lui!


Purtroppo hanno cantato poco, sei arie in quattro: due a testa la Theodossiou e la Pratt (vestite di nero), una sola la Remigio e una Fanale, accompagnati dalla FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, diretta da una temperamentosa Carla Delfrate; l’orchestra, sommessa e delicata nella Canzone del salice, era più a suo agio nelle alte sonorità e nelle esplosioni che nel cesello delle note pagine di sola musica di Verdi (Sinfonia del Nabucco, Preludio I atto del Macbeth con i ghigni delle streghe dal flauto di Francesco Chirivì, Ouverture de La Forza come bis) e di Bellini (Sinfonia dalla Norma). 

Il cesello si è sentito di più nella voce degli strumenti solisti, che di volta in volta emergevano dal discorso orchestrale, arpa, fagotto e il flauto di Chirivì sempre in primo piano, ma la voce che ha catturato la platea è stata quella del violino solista nella pagina per violino e orchestra, Meditation da Thaïs di J. Massenet, eseguita magicamente da Alessandro Cervo, inizialmente accompagnato dalla sola arpa di Margherita Scafidi e poi da un’orchestra densa, che ci ha portato dentro un romanticismo diffuso e non mieloso, pervaso di una musica dolcissima e sognante.
Sul piano vocale la netta superiorità dei tre soprani ha messo in secondo piano il premiato.
Dimitra Theodossiou, eccellente soprano drammatico d’agilità, ha presentato due cavalli di battaglia del suo repertorio verdiano: Pace, pace mio Dio da La forza del destino e La luce langue da Macbeth. Il soprano greco ha il dramma nella voce, la densità dei suoni centrali, la luminosità degli slanci acuti, i lunghi e sensibili filati rinforzati con la messa di voce, lo scavo della parola, il cesello della frase, le permettono un’interpretazione intensa, teatrale anche in concerto; i gravi graffianti, gli slanci infuocati, lo sguardo fisso nel vuoto la immergono completamente nella follia della Lady più terribile dell’opera. Dimitra è vera attrice e la sua Lady Macbeth genera turbamento.
Jessica Pratt, eccelso soprano di coloratura, ama molto la Linda di Chamounix di G. Donizetti, che le consente di esternare tutte le sue doti belcantiste, nell’aria  Ah tardai troppo…O luce di quest’anima, la sua musicalissima agilissima pulitissima voce s’ingigantisce nelle progressioni acute, attraverso rocambolesche scale cromatiche, i suoi sovracuti lanciati e sicuri vibrano nelle orecchie dell’ascoltatore come lame di cristallo. La sua potenza risiede proprio nella tessitura alta estrema, ma non scherza neanche nelle scintillanti pagine di bravura e nelle lunghe cadenze dell’aria di Norina Quel guardo il cavaliere, So anch’io la virtù magica da Don Pasquale di Donizetti.  
Carmela Remigio (con un fantastico abito bianco decolleté, per presentar Desdemona) ha eseguito solo un’aria in chiusura del programma, Canzone del salice… Ave Maria, da Otello di G. Verdi, un’interpretazione pregnante d’emozione e tecnicamente perfetta: canto sul fiato, uso della messa di voce, sonorità delle mezze voci, pulizia e sostegno dei suoni tutti ben a fuoco, pieni e arrotondati nel registro grave, lucenti e bellissimi in quello acuto, il volume non è enorme ma è ben dosato.
In mezzo a queste forze della natura Paolo Fanale ci è sembrato un tenero virgulto in balia del vento: al termine della prima parte, il tenore, introdotto da arpa e fagotto, ha cantato le prime frasi di Una furtiva lacrima con voce tremolante fin dall’attacco come se fosse una canzonetta, poi il suono si è stabilizzato ed illuminato in tessitura acuta dove è uscito il bel colore accanto alla tenuta dei fiati e all’uso della messa di voce. Non ha cantato altro, un po’ poco rispetto al ricco programma che avrebbe eseguito se la data fosse rimasta a febbraio. Troppo poco per onorare un premio intitolato ad un grande.

Comunque gli è stato conferito il Premio Internazionale “Franco Corelli” per aver interpretato l’anno scorso alle Muse il ruolo di Ferrando in Così fan tutte, (dove aveva evidenziato i soliti pregi e difetti vocali: bella cavata, buona tecnica, risonanze nasali).
Dopo un’introduzione del Sindaco/presentatore Gramillano, il Direttore artistico Alessio Vlad ha consegnato al tenore una scultura originale realizzata dall’artista marchigiano Paolo Annibali di San Benedetto del Tronto, una consegna molto informale, senza un’immagine di Corelli sul fondale, senza la voce di Corelli nell’aria, senza una parola su Corelli, senza una presenza femminile in palcoscenico come presentatrice per spezzare il grigiore di quei tre o quattro abiti scuri maschili.
Il quattro cantanti si sono trovati a cantare insieme la Tarantella di Rossini come bis, brano poco adatto a tutte e quattro le voci, che si sono sentite poco.
All’uscita dal teatro un calice di vino e due dolcetti per tutti gli spettatori.

Alla luce di quanto sopra qualche domanda sorge spontanea.
1) Vista la notorietà e la valenza di Franco Corelli, non sarebbe giusto scegliere il premiato nel più vasto panorama lirico internazionale per avere proprio il migliore?
2) Se per statuto si deve attingere solo agli artisti che si sono esibiti alle Muse, il Premio è internazionale o è locale?
3) Se si premia un cantante che si è esibito al Teatro delle Muse, perché fare la premiazione l’anno dopo?
4) Se un anno la stagione lirica dovesse saltare, l’anno successivo salterebbe anche il Premio Corelli? 
5) Gli organizzatori non sono curiosi di vedere come si organizzano altrove i Premi lirici?

giovedì 1 novembre 2012

Modena, Teatro Comunale Pavarotti

 Don Carlo di Giuseppe Verdi 

(17 ottobre 2012)


Il dramma dell’incomunicabilità e dell’infelicità in un clima di cupa religiosità.


Il 17 ottobre 2012 ho festeggiato il mio compleanno al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena con  Don Carlo, l’opera verdiana che ha aperto la stagione lirica 2012-13 con un nuovo allestimento del Teatro in coproduzione con Piacenza per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Verdi.
L’opera era quella in cinque atti nella versione di Modena del 1886 su libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, tratto dal poema drammatico di Schiller. 
Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini.
È vero che l’antefatto descritto nel primo atto è necessario per comprendere l’amore di Carlo per la futura regina (storicamente mai avvenuto), ma è anche vero che questo atto non è poi così tanto bello e sinceramente ci sentiamo proiettati dentro l’opera quando si ascoltano le note d’inizio del II atto.
Alessandro Ciammarughi ha scelto bellissimi costumi d’epoca sontuosi ed elaborati, nei colori nero, bianco e rosso; per le scene ha adottato velatini, proiezioni per i cambi rapidi, tele dipinte per fondali classici creati dal laboratorio modenese di Rinaldo Rinaldi, arredi e soppalchi in legno, una gigantesca luna sopra i giardini della Regina, la tomba di Carlo V (al centro come l’aveva posizionata Luchino Visconti) attorniata da ceri e una statua della Madonna come presenza funereo-religiosa, due sagome nere d’impiccati vittime dell’Inquisizione su un fondale rosso, che hanno creato gli ambienti richiesti col supporto delle luci e controluci di Nevio Cavina.

Per quest’opera corale con tanta gente in scena il regista Joseph Franconi Lee ha seguito una normale linea narrativa, prediligendo una certa compostezza dei personaggi e una certa staticità delle masse per il disegno di cromatici quadri scenici. Movimenti coreografici Marta Ferri.

Il cast ci ha lasciato abbastanza soddisfatti.
Giacomo Prestia (Filippo II, Re di Spagna), un basso cantante che sa cantare, ha esibito un bellissimo colore vocale e, pur avendo perso un po’ la salda fermezza di un tempo, è emerso per eloquenza e nobiltà del fraseggio nelle ampie frasi melodiche, morbidezza dell’emissione, imperiosità d’accento, scavo della parola scenica; l’intensa e dolente interpretazione (spogliato degli abiti regali e in ginocchio davanti alla statua della Madonna) della lugubre e stupenda romanza  Ella giammai m’amò, attaccata sottovoce, ha fatto scattare l’applauso.
Molto intensa ed emotivamente coinvolta nel ruolo di Elisabetta, Cellia Costea ha modulato a meraviglia una bella voce di soprano dal suono robusto e lunghi fiati.

Inossidabile il tenore Mario Malagnini (Don Carlo) per bella presenza scenica e per qualità canore; la sua voce non denuncia il passare degli anni: bella, grande, fresca, ha brillato per smalto e sicurezza dello squillo nelle impennate verso il registro acuto, per colore e per un accattivante modo di porgere nel cromatismo del fraseggio,  per saldezza della linea di canto; formidabile nel duetto con Rodrigo (Dio che nell’alma infonde).
Il giovane baritono Simone Piazzola (Rodrigo, eroe positivo) ha fatto sfoggio di un mezzo vocale ampio e scuro, potente nell’irruenza del fraseggio, morbido nelle frasi di larga cantabilità, luminoso negli slanci acuti; i suoni erano sostenuti ma talvolta  cupi e pesanti.
Il mezzosoprano Alla Pozniak, veemente ma non suggestiva nelle vesti della Principessa Eboli, ha fatto affidamento sulla potenza e sull’estensione di una vocalità che tocca bene tutti i registri e su un modo di porgere sfumato e intenso, ma il colore opaco, i centri gonfiati, i gravi intubati, gli acuti poco controllati, la dizione incomprensibile hanno infastidito l’ascolto.
Luciano Montanaro (Il Grande Inquisitore) ha voce ampia, sostiene bene il suono, ma non è un basso profondo, è meno grave di Prestia.
Paolo Buttol (Frate) ha voce scura un po’ impastata.
A completare il cast  Irène Candelier (Tebaldo e Voce dal Cielo),  Giulio Pelligra (Conte di Lerma),  Marco Gaspari (Un araldo reale).
Bravo il Coro Lirico Amadeus – Fondazione Teatro Comunale di Modena, preparato da Stefano Colò.
La temperie emotiva di questo dramma della solitudine affettiva e dell’incomunicabilità, frutto del pessimismo verdiano, non era al massimo neanche nell’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna, a volte sopra il volume consentito, diretta da Fabrizio Ventura.


Curiosità del passato
Il 22 aprile 1869 il tenore Mario Tiberini e sua moglie il soprano Angiolina Ortolani debuttarono i ruoli di Don Carlo e di Elisabetta al Pagliano di Firenze (“I coniugi Tiberini furono artisti distintissimi i quali rendono testimonianza che la scuola di canto italiana ha ancora egregi rappresentanti” La Gazzetta di Milano, 25 aprile 1869, pgg. 144-145)