venerdì 28 febbraio 2014

Fano Teatro della Fortuna. RIGOLETTO


Fano, Teatro della Fortuna

RIGOLETTO

(21    febbraio 2014)


Giosetta Guerra


Gli spazi contenuti del palcoscenico hanno reso affannosa la brutta scenografia e compresso le masse sul boccascena.


 

Un intreccio di tubi d’acciaio formava una costruzione aperta di due piani, che occupava tutto il palcoscenico e ospitava in basso una discoteca dove il Duca di Mantova se la spassava con donnine più o meno vestite. La discoteca con gente che ballava si vedeva in trasparenza ed era abbastanza offuscata. 

Negli atti successivi la costruzione si divideva in due parti, per delineare l’abitazione di Gilda e quella di Ceprano e poi la taverna di Sparafucile. La scenografia ideata da Alessandro Talevi era semplice, fredda, grigia e ingombrante, tant’è che il coro si è esibito per lo più schierato e compresso sul boccascena, dove si è dovuto lasciare un piccolo spazio anche per le ragazze uscite dalla discoteca. Buie le scene, scuri i costumi di foggia moderna con qualche tocco di rosso e di bianco. Altri colori degli abiti visibili nelle foto non si sono visti in palcoscenico a causa dell’oscurità quasi costante.


A parte il riferimento iniziale ad un presunto locale da ballo, identificabile dal lampadario a sfera con specchietti tipico delle sale anni ‘60, e al carrello portapacchi per trasportare il corpo della  

persona uccisa alla fine, l’opera si è svolta sulla linea della tradizione e i personaggi si sono mossi entro i canoni conosciuti; c’era anche la scala appoggiata all’impalcatura per il rapimento di Gilda e non un ascensore; inoltre, se Rigoletto fosse stato un personaggio dei nostri tempi, se ne sarebbe infischiato della maledizione e anche Gilda avrebbe meno fantasticato sul “caro nome”. Altra incongruenza si è avuta alla fine, quando il cielo, a mezzanotte, si è riempito di nuvole bianche e rosate per diventare poi azzurro e aprirsi alla luce del giorno e ritornare nero. Boh!


Scene e regia di Alessandro Talevi, costumi di Manuel Pedretti, luci di Giuseppe Calabrò.


Rigoletto, comunque, è un’opera che piace sempre, perché ci sono molte arie note, gli affetti hanno il sopravvento sulla superficialità, ma anche la spavalderia fa il suo effetto, i deboli acquistano vigore, la musica è accattivante, ma il gradimento sale o scende in base agli artisti che calcano il palcoscenico. Al Teatro della Fortuna di Fano abbiamo assistito ad uno spettacolo di media levatura con un Rigoletto intenso, una Gilda delicata, un Conte spavaldo, come da copione.


 









Sul piano vocale il baritono Mauro Bonfanti, nel ruolo di Rigoletto (con una floreale camicia rossa sopra la classica gobba e, chissà perché, con le corna rosse), è stato credibile per l’intensità dell’interpretazione e per la passione che ha infuso al personaggio, la voce è un po’ troppo chiara per il ruolo, ma si estende facilmente verso la tessitura acuta e si scurisce nella zona grave, inoltre il canto sul fiato e la naturalezza dell’emissione gli hanno permesso di tenere una linea di canto morbida, di sostenere bene i suoni e i lunghi fiati e un accorato canto a mezza voce nei duetti con la figlia.

Laura Giordano (Gilda) ha usato con proprietà e correttezza formale una voce di soprano leggero di non grande spessore, limpida nel suono, agile nei trilli, delicata nel canto sfumato e a fior di labbro, melodiosa nei filati anche rinforzati con l’uso della messa di voce.

Gianluca Terranova ha esibito voce tenorile robusta e di bel timbro, dal suono pieno e rotondo nella zona centrale, ma, cantando col fiato, ha eluso le sfumature e le mezze voci ed ha esibito suoni stretti e ingolati nella tessitura acuta, che comunque emergono ugualmente anche dalle forti sonorità orchestrali perché lanciati di forza. Bello, luminoso e ben proiettato invece  lo squillo in Bella figlia dell’amore.


La voce di Carlo Malinverno (Sparafucile) è risultata interessante più nei gravi cavernosi che altrove, Mariana Pentcheva ha evidenziato bel colore vocale e buon peso nelle vesti di Maddalena, sorella di Sparafucile. Fratello e sorella avevano dizione incomprensibile.


Lara Rotili (Giovanna) è un mezzosoprano di bel colore ma poco esteso, Giampiero Cicino in giacca rossa (Monterone) è un baritono chiaro di poco spessore, la maledizione non si è sentita ed è stata coperta dal coro, Giacomo Medici (Marullo) è un baritono di poco spessore. E per completare: il basso Roberto Gattei (Ceprano) che abitualmente canta nel coro, il mezzosoprano Olga Maria Salati un  
donnone in rosso con volpe al collo e con parrucca bianca (la contessa di Ceprano), il tenore Gilberto Mulargia (Matteo Borsa), il tenore Gianni Paci (un usciere di corte), il mezzosoprano Valentina Chiari (un paggio della Duchessa).

Buono vocalmente ma poco attivo scenicamente per mancanza di spazio il Coro formato dall’unione di artisti del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” e del Coro del Teatro della Fortuna “M. Agostini”, preparato dal M° Carlo Morganti; solo nella scena del rapimento ha creato un insieme suggestivo al centro del palcoscenico tra le due abitazioni, quella di Ceprano e quella di Gilda, col contrasto delle luci che  
mettevano in evidenza la testa di maiale dei coristi, purtroppo in quell’occasione è stato dato poco rilievo vocale alla nota pagina “Zitti zitti”.

L’Orchestra Filarmonica Marchigiana in collaborazione con l’Orchestra Sinfonica G. Rossini, diretta da Francesco Ivan Ciampa, non è stata sempre discreta nel rispetto delle voci, ma attenta alle atmosfere, ai sentimenti, al carattere dei personaggi.


Note storiche

Rigoletto vide il suo debutto al Teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo 1851 con Teresa Brambilla (Gilda), Felice Varesi (Rigoletto) e Raffaele Mirate (Duca di Mantova). Il Duca di Mantova fu un ruolo caro anche al tenore marchigiano Mario Tiberini che lo interpretò tra il 1855 e il 1857 nelle Antille e negli Stati Uniti e lo portò poi a Barcellona (1859) con  Angiolina Ortolani che sposerà nello stesso anno, a Napoli (1861-62), a Firenze (1862), a Madrid (1868-69).
(Da: Mario Tiberini, tenore di Giosetta Guerra).




 ph Amati Bacciardi



giovedì 20 febbraio 2014

Ferrara - La Cenerentola


Ferrara Teatro Comunale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Cenerentola di  carnevale 

con l’ammiccante regia di Lorenzo Regazzo 

e la splendida voce di Chiara Amarù

Melodramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti  

musica di Gioachino Rossini

  (7 febbraio 2014, prima)

Recensione di Giosetta Guerra

 

A Carnevale ogni scherzo vale 

e se gli scherzi sono

di buon gusto son anche graditi.

La prima cosa che colpisce all’inizio dell’opera, e viene confermata in itinere, è la magnifica acustica del Teatro Comunale di Ferrara: i suoni orchestrali e le voci girano lungo le pareti e arrivano allo spettatore come se fossero amplificati, invece non lo sono.
La Sinfonia d’inizio è stata intelligentemente eseguita a sipario chiuso, come ormai non si fa più; l’Orchestra Città di Ferrara, diretta da Sergio Alapont, ha diffuso un bel suono pulito sia nelle trasparenti leggerezze delle arie amorose che nella brillantezza dei sostenuti crescendo.
La voce dell’Amarù, che sentivi in tutta la sua corposa morbidezza come se l’avessi a dieci centimetri di distanza, era una vera delizia. Cenerentola era infatti quella magnifica giovane belcantista che si chiama Chiara Amarù, autentico mezzosoprano rossiniano dal corpo vocale consistente ed esteso, duttilissimo nella coloratura e nei salti d’ottava, dal caldo timbro brunito, dagli affondi morbidi e dalla luminosità degli acuti, il tutto corredato da una perfetta emissione dei suoni, un raffinato fraseggio, un corretto modo di porgere e una dizione chiarissima.



Purtroppo il principe non era alla sua altezza. Il tenore cinese Ly Yuan (Don Ramiro) ci è sembrato totalmente fuori ruolo, non per padronanza scenica che c’era, ma per mancanza di tecnica e per una pronuncia terrificante; la voce è robusta e di timbro chiaro, ma non si capisce che uso ne voglia fare il tenore, se non quello di far colpo con gli acuti tenuti; agilità saltellanti e staccate, alcuni acuti sbiancati in falsetto, suoni stretti e nasali in ascesa e ingolati in discesa, fino al limite dell’intonazione, lasciano capire che lo stile rossiniano non è ancora nelle sue corde.

 


Invece Clemente Daliotti (Dandini), pomposo nel canto e nel gesto, ha esibito voce ampia, sonora, ben messa, bei gravi, belle agilità, dimestichezza col canto veloce e col palcoscenico.  
Umberto Chiummo (un Magnifico istrione in scena), ha fatto uso di una bella voce di basso, ampia e sonora, ma dovrebbe raffinare la linea di canto; Fabrizio Beggi (Alidoro) ha evidenziato una vociona di basso dal bel timbro, ampia ma poco duttile, suoni rotondi e robusti, ma un po’ aspri.

 


Caterina Di Tonno (Clorinda) è un soprano scintillante dalla bella voce agile e ben usata, Elisa Barbero (Tisbe) ha usato con proprietà una buona voce di mezzosoprano.
Bellissimo l’amalgama sonoro del coro maschile, il Coro Voxonus preparato da Alessandro Toffolo.
Ma l’aspetto più geniale di questo allestimento è stata l’idea registica di caricare i caratteri senza uscire dal seminato e di aggiungere un personaggio muto senza compromettere la storia.
Il regista Lorenzo Regazzo (sì, proprio lui, il basso), coadiuvato da Guia Buzzi per scene e costumi e da Roberto Gritti per le luci, ha costruito uno spettacolo piacevole e divertente, dominato dal colore e dalla fine caricatura, in tema col periodo di carnevale, come i costumi, certo sopra le righe, ma adeguati ai caratteri.




Ecco quindi che Don Magnifico è un fan di Elvis Presley, di cui tiene una sagoma a dimensioni umane in casa e si veste e si muove come lui (parrucca da giovane rokkettaro, completi colorati con pantaloni a zampa d’elefante, magliette con l’immagine di Elvis e camicia gialla con ruches), le due sorellastre con parrucche esagerate esibiscono con disinvoltura le loro rotondità sia in sottoveste che dentro abiti arzigogolati e fronzolosi, Cenerentola ha una semplice vestaglietta quando sta in casa a stirare, un abito lungo rosso per la festa a palazzo
e infine un tailleur rosa quando diventa principessa con la corona in testa, Dandini è l’unico personaggio d’altri tempi con parrucca bianca e scarpe bianche stile settecento (ma il vestito è di raso azzurro, quindi carnevalesco), Alidoro ha una giacca bianca a coda e pantaloni argento da mago, gli altri indossano abiti attuali, Don Ramiro e il coro hanno abiti scuri con camicie colorate. E poi c’è il personaggio aggiunto: un azzimato e servizievole maggiordomo, vestito da pinguino, che porta oggetti a questo e a quello, insistendo sulla scarpetta di cristallo che porta ripetutamente in scena
su un cuscino e che nessuno vuole perché in quest’opera Cenerentola ha come oggetto di riconoscimento lo smaniglio e non la scarpetta. Interprete eccezionale di questo maggiordomo è lo stesso Lorenzo Regazzo con quella mimica facciale e gestuale che conosciamo. La sua regia è un garbato ed ironico mixage di trovate, che soltanto un maestro di palcoscenico come lui poteva scovare tra le pieghe di un’opera che lui ha più volte interpretato come cantante. Una lode in più al regista per non aver movimentato i concertati.
Le scene coloratissime come i luoghi delle favole erano veramente belle ed eleganti con pochi elementi funzionali: un divano letto giallo e rosso appoggiato ad una parete con carta floreale da parati azzurra e fuxia, una cucina con pareti azzurre, una credenza, un asse da stiro e tanti panni da stirare, una scala azzurra, e qualche porta da sbattere.


Elementi che cambiavano colore all’occorrenza 

dietro un curatissimo disegno luci. 

Uno spettacolo veramente bello, che rivedrei cambiando tenore.
 

Coproduzione Teatri e Umanesimo Latino S.p.A. -

Treviso e Fondazione Teatro Comunale di Ferrara

 


foto di Marco Caselli Nirmal



sabato 15 febbraio 2014

Ancona Teatro delle Muse, L'Elisir d'amore




Ancona Teatro delle Muse

L’ELISIR D’AMORE
Melodramma giocoso in due atti, libretto di Felice Romani da “Le philtre” di Eugène Scribe, musica di Gaetano Donizetti

Nuova produzione Fondazione Teatro delle Muse, allestimento Circuito Lirico Lombardo
(Recita del 2 febbraio 2014)     

                                                                                                                
UN GRADEVOLISSIMO ELISIR.

Alle Muse è nata una stella.

Servizio di Giosetta Guerra
                                                                                                                                                                                                   
Non vedevo l’ora di riascoltare la magnifica coppia Meli - Gamberoni che avevo già apprezzato nei ruoli di Nemorino e Adina al Teatro Regio di Torino, ma una brutta tracheite ha tenuto Francesco Meli lontano dal palcoscenico e Nemorino è restato a casa con lui. Al suo posto si è presentato un giovincello riccioluto col giubbotto di pelle, con la sua voluminosa capigliatura nera alla Cocciante o alla Cristicchi, che dava un aspetto naïf a questo contadinello semplice e innamorato. Proprio un perfetto Nemorino, non solo nell’aspetto ma anche nella gestualità, nell’espressione, negli atteggiamenti e, quel che più conta, nella voce, nella linea di canto, nel modo di porgere.

  
Era Davide Giusti, un tenore ventisettenne di Civitanova Marche salito in palcoscenico nel secondo atto della prima senza uno straccio di prova. Il giorno dopo ha fatto una prova d’insieme e per la replica era perfetto. È un tenore amoroso, con voce chiara ma di spessore, di bel timbro e di notevole estensione, ma quel che affascina, oltre ai lunghi fiati e alla facilità dello squillo, è la padronanza del fraseggio, la morbidezza della linea di canto, la giusta proiezione del suono e la capacità di arrivare al pubblico con la forza dell’interpretazione. L’attacco sommesso ma sonoro della furtiva lacrima, l’uso della messa di voce e della dinamica sfumata, le giuste pause, la splendida tenuta del fiato, la morbidezza degli appoggi gravi, lo scintillio degli acuti e dei sovracuti ci hanno fatto capire che alle Muse stava nascendo una stella. Penso che Adina sia rimasta soddisfatta, anche se il Nemorino in scena non era suo marito Francesco, e sicuramente il nuovo Nemorino si sarà sentito onorato di essere il partner di Serena Gamberoni. La voce squillante, scintillante e pulita del soprano, la bella gamma di colori, gli acuti che bucano, l’adesione al senso della frase e della parola, il canto dolcissimo (“Quanto amore”), la sicurezza dei trilli, la levigatezza dei filati, la sublime interpretazione (“Prendi, per me sei libero”) fanno di lei un’Adina di rifermento.
I loro duetti sono stati di una poesia toccante, ma anche una prova di belcanto (“Esulti pur la barbara”). Lei: “Chiedi all’aura” dolcezza del canto, sostegno del fiato, estesissima; lui: “Chiedi al rio” modo di porgere elegante, voce estesa di bellissimo colore, sostegno del fiato, mezze voci rinforzate, interpretazione molto intensa, (“Poiché non sono amato”) passione e disperazione.
 
Vicino ad una simil coppia, il Belcore di Alexey Bogdanchikov (col monocolo e il cappello da bersagliere, entrato a bordo di un sidecar rosso) ha brillato un po’ meno, ma di lui abbiamo apprezzato una voce baritonale estesa di bel timbro, controllata nell’emissione e duttile nel canto sillabato e una bella tenuta scenica.
 
Nel ruolo del buffo si è imposto per l’ennesima volta il baritono Bruno Praticò, un dottor Dulcamara da manuale, fatto arrivare stavolta sulla storica Citroën due cavalli (purtroppo spinta a mano da figuranti). Rallentando i tempi di “Udite o rustici” per scandire bene la parola, Praticò ha sfoggiato un mezzo vocale autorevole, dal peso consistente, con tecnica super collaudata e chiarezza del sillabato veloce; nel successivo duetto con Nemorino si è notato un affiatamento speciale, tutto scorreva con ritmo leggero, brio e armonia. Magnifico. Una vera poesia. La leggerezza del ritmo è continuata nel terzetto con Belcore, dominato da Nemorino in piedi sul tetto dell’auto. A loro si è unita un’Adina preziosamente dolce, a cui Nemorino si rivolgeva con accento patetico e profondamente sentito che arrivava al cuore (“Adina credimi”), e poi il coro per un suggestivo concertato su tempi morbidi, in fermo-immagine, per dar risalto al pathos e all’alto lirismo della pagina. Regia magnifica. Assistente di Dulcamara il mimo Alessandro Mor.
Marta Torbidoni (Giannetta) ha esibito una bella voce pulita e brillante, bella proiezione del suono, dizione chiara.
Il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, guidato dal maestro Carlo Morganti, ha confermato la sua nota preparazione, è entrato con precisione nel ritmo giococo delle pagine corali e dei concertati e ci è molto piaciuta la pienezza vocale del coro delle femmine ubriache attorno a Nemorino sostenuto da un’orchestra brillante.
Il direttore d’orchestra Jader Bignamini ha colto la psicologia dei personaggi e i colori del paesaggio che emergono dalla musica. La FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, ben amalgamata col canto, ha tenuto tempi briosi, ritmo adeguato, suono limpido.
Andiamo infine all’aspetto visivo che potrei racchiudere in un solo aggettivo: MAGNIFICO, ma val la pena scendere nel dettaglio.
 
L’apertura del sipario su una grande risaia bianca, proiettata sul fondale con l’acqua che si muove e sul velatino davanti, riempie il palcoscenico di un biancore estatico da cui sbucano come per magia i coristi, che prendono colore e si muovono anche con la bicicletta.  
Un’originalità di questa regia è il passaggio dal bianco e nero delle figure d’insieme ferme al colore delle figure in movimento, come se prendessero vita da un amorfo stato di attesa. Molti usano la bicicletta. Bellissime le scene d’insieme con luce dall’alto ora calda ora fredda; i militari col fez rosso, capeggiati dal sindaco con la bandiera, si muovono al rallenty. Gocce di pioggia scendono sul fondale di una scena semibuia nel duetto Nemorino/Adina “Una parola, o Adina”. Lentezza di movimento della gente anche all’arrivo di Dulcamara con giacca e cappello bianchi, pantaloni neri e scarpe alla francese bianche e nere, e qui il regista si è sbizzarrito con le proiezioni in bianco e nero di pubblicità e di artisti degli anni ‘60/70 che furoreggiavano su Carosello: Topo Gigio, Calimero, l’Olandesina, Ernesto Calindri col suo amaro, Franco e Ciccio, la Marchesini, senza dimenticare il magico elisir, disturbando naturalmente l’ascolto dell’aria d’ingresso di Dulcamara, per terminare con il segnale RAI di allora, durante la vestizione di  Adina sposa, e la foto ricordo del gruppo.

Bella la scena coi pioppi altissimi su
pannelli isolati da cui escono le mondine colorate; spiritosa quella che mostra Nemorino ubriaco disteso a terra dentro un cerchio di bottiglie vuote tra alberi in bianco e nero; non manca neanche l’erotismo: Giannetta e Belcore fanno una sveltina dentro l’auto parcheggiata, mentre Nemorino e Adina si danno un bacio.  
Non ho capito perché il regista ha fatto cantare la “Barcaruola a due voci” lasciando Adina in palcoscenico e mettendo Dulcamara dietro un telo con un buco tondo per mostrarne la faccia e perché alla fine ha fatto spuntare le ali a Dulcamara.
Regia e luci di Arnaud Bernard, scene e proiezioni di Carlo Fiorini, coregista e assistente alla regia Stefano Trespidi, costumi di Carla Ricotti, assistente ai costumi Giulia Pasetti.
Nell’insieme lo spettacolo è stato bellissimo. Le foto che mi sono state inviate non rispondono alla bellezza delle scene.



foto bobo antic



 


            Francesco Meli e  
             Davide Giusti

Teatro Tiberini San Lorenzo in Campo (PU) dr.gam in concerto


mercoledì 5 febbraio 2014

fano Teatro della Fortuna CARMEN



Fano, Teatro della Fortuna, Stagione lirica 2014

CARMEN di George Bizet
nella versione originale del 1875, con i dialoghi parlati.
Opéra comique
in francese in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla novella omonima di Prosper Mérimée.
 
Un minuto di silenzio in ricordo

del Maestro Claudio Abbado

S’è spento il sole in terra gitana.

Una Carmen opaca, senza il colore spagnolo. 



Recita del 26 gennaio 2014

Giosetta Guerra

Un teatro che allestisce solo due opere l’anno deve puntare sull’intelligibilità e sulla piacevolezza dello spettacolo, mantenendo dignitoso il livello della qualità. Il Teatro della Fortuna di Fano ha avuto la buona idea di programmare insieme al Teatro delle Muse di Ancona e di allestire gli spettacoli insieme ai teatri di Livorno, di Pisa e di Lucca. Da qualche anno ha intrapreso anche un percorso di coinvolgimento delle scuole e gli alunni delle superiori vengono ospitati alla prova generale, ma proprio per ottimizzare questo percorso di formazione non si può lesinare sull’intelligibilità dello spettacolo. Riferendomi alla Carmen di Bizet, andata in scena il 24 e il 26 gennaio 2014 nell’edizione originaria, parlata e cantata, è stato un grave errore non proiettare la traduzione del testo francese; pur conoscendo la trama, ma non la lingua, quattro ore di dialoghi incomprensibili sono pesanti specialmente per chi va all’opera per la prima volta. Inoltre un’opera della durata di quattro ore deve iniziare non oltre le 20 se è serale e non oltre le 16 se è pomeridiana.
Carmen comunque attira, per il colore e il calore della Spagna, per la sensualità e la spregiudicatezza della protagonista, per la passionalità di Don Josè, per l’esuberante fascino di Escamillo, per il dolce lirismo di Micaela, e, se tali prerogative vengono eluse, si rimane veramente delusi.
In questo allestimento al Teatro della Fortuna di Fano il colore spagnolo è completamente assente sia negli ambienti monocromatici che nei costumi poveri e scialbi, tranne quello del torero. La scena fissa, che riproduce il muro dello Sferisterio di Macerata, praticabile su due piani, assume funzioni diverse nei vari atti: nel I atto rappresenta i bastioni di Siviglia (con in alto soldati e fumatori affacciati sulla sottostante piazza del mercato con bancarelle, un flipper con giocatori e bambini seduti a lato), nel secondo le pareti illuminate da dietro dell’osteria (piena di gente ai tavoli che beve birra, alcuni uomini arrivano con la valigia, alcune coppie amoreggiano), nel terzo i fianchi della montagna innevata lungo i quali vengono fatti salire e scendere con delle corde i pacchi dei contrabbandieri (già visto a Macerata), nel quarto il muro dell’arena. Le scene di  Nicola Bruschi sono funzionali,
ma, per quanto le luci di Bruno Ciulli possano fare, l’impressione che rimane è l’uniformità. “Va be’,  direte, vi sarete rifatti l’occhio coi costumi colorati e svolazzanti di Carmen, con la sua lunga capigliatura nera sbattuta ai quattro venti, col fiore rosso tra i capelli o magari tenuto tra i denti, con la sua bellezza procace e le sue danze provocatorie…” Macché! Niente di tutto questo. Il colore dominante dei costumi delle masse è il marrone nelle varie gradazioni.  
Carmen è piccoletta e rotondetta, ha i capelli corti alla maschietta, indossa rossi pinocchietti e una corta camicetta che lascia scoperta un po’ di pancetta opportunamente  coperta da una nera veletta;
  
nella taverna di Lillas Pastia non è Carmen a danzare sui tavoli, ma le altre donne presenti, lei se ne sta in disparte vestita come le nostre nonne in cucina, (avete presente quelle vestagliette che si incrociano?),  poi fa uno spogliarello per trattenere Josè che però scappa. 
 
La regia di Francesco Esposito e i costumi di Alessandro Lai non sono in sintonia con  un’opera tutta chiarezza e vivacità, piena di colore e di melodia", come la definiva il suo compositore. Manca infatti l’effetto scenico dell’ "orda" colorata delle sigaraie, della marcetta festosa dei bambini, del caratteristico corteo del torero, dei vivaci costumi spagnoli, della spettacolarità delle scene di massa, ma soprattutto manca il colore locale e a volte anche il movimento. Il più credibile è Escamillo, vestito da torero. La scelta registica di far gettare Carmen sul coltello di Josè è poi la meno credibile. Figuriamoci se in nome della libertà e dell’indipendenza una persona compie un’azione simile. “Ma mi faccia il piacere” direbbe Totò. Le mediocri coreografie del Corpo di ballo Altradanza sono di Domenico Iannone.
Agata Bienkowska, al suo debutto nel ruolo di Carmen, esibisce vocalità densa, consistente e rotonda, estesa e vibrante, luminosa negli acuti, ma i suoni gravi a volte sono cupi e intubati. Si muove con padronanza scenica, ma non ha niente di Carmen, né il fascino, né la sensualità, né il carisma, e neanche l’aspetto vista la miseria del suo abbigliamento, nella scena di seduzione è spregiudicata e temeraria, ma gli atteggiamenti sono più sguaiati che sensuali.
Il soprano di coloratura Valeria Esposito (Micaela vestita di blu) si avvale di una tecnica consolidata per usare correttamente un mezzo vocale pulito che non ha più tanto spessore né lucentezza, si avverte una certa fatica ma tutto è cantato bene nel rispetto dell’intonazione, della musicalità e dell’espressività.
 
Dario Di Vietri è un bel Don Josè istintivo e passionale, ha un bel timbro robusto e una bella cavata di voce, usata soprattutto di fibra con slanci acuti sostenuti e brillanti e squillo sicuro, irruente ma convincente è un bravo interprete con una grande voce.
 
Il baritono Omar Kamata, in sostituzione dell’infortunato Marcello Lippi nel non facile ruolo di Escamillo, è un macho imponente, usa con morbidezza un mezzo vocale consistente e tiene la giusta intonazione.
Andrea Vincenzo Bonsignore (Morales) ha voce baritonale di bel colore ma di poco spessore, Franco Rossi (Zuniga) è un basso chiaro dalla voce aspra e poco ferma.

Cantano e recitano bene Giampiero Cicino (El Dancario), Andrea Schifaudo (El Remendado), Lara Rotili (Mercedes) e Paola Santucci (Frasquita).

Ben preparati sia il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, diretto dal nuovo maestro Mirca Rosciani sia il Coro di voci bianche “Incanto” e “Pueri cantores del Mezio Agostini” guidato da  Francesco Santini.
Il direttore Marco Boemi guida con partecipazione e competenza la brava Orchestra Sinfonica G. Rossini, che si destreggia bene nella sfavillante policromia delle pagine spagnoleggianti, nella dolcezza delle frasi musicali che evocano il passato, nella forza delle linee cupe d’amore e di morte.