Fano, Teatro della Fortuna, Stagione lirica 2014
CARMEN di George Bizet
nella versione originale del 1875, con i dialoghi parlati.
Opéra comique in francese in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla novella omonima di Prosper Mérimée.
Opéra comique in francese in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla novella omonima di Prosper Mérimée.
Un minuto di silenzio in ricordo
del Maestro Claudio Abbado
Recita del 26 gennaio 2014
Giosetta Guerra
Un teatro che allestisce solo due opere l’anno deve puntare sull’intelligibilità
e sulla piacevolezza dello spettacolo, mantenendo dignitoso il livello della
qualità. Il Teatro della Fortuna di Fano ha avuto la buona idea di programmare
insieme al Teatro delle Muse di Ancona e di allestire gli spettacoli insieme ai
teatri di Livorno, di Pisa e di Lucca. Da qualche anno ha intrapreso anche un
percorso di coinvolgimento delle scuole e gli alunni delle superiori vengono
ospitati alla prova generale, ma proprio per ottimizzare questo percorso di
formazione non si può lesinare sull’intelligibilità dello spettacolo. Riferendomi
alla Carmen
di Bizet, andata in scena il 24 e il 26 gennaio 2014 nell’edizione originaria,
parlata e cantata, è stato un grave errore non proiettare la traduzione del
testo francese; pur conoscendo la trama, ma non la lingua, quattro ore di dialoghi
incomprensibili sono pesanti specialmente per chi va all’opera per la prima
volta. Inoltre un’opera della durata di quattro ore deve iniziare non oltre le
20 se è serale e non oltre le 16 se è pomeridiana.
Carmen comunque
attira, per il colore e il calore della Spagna, per la sensualità e la
spregiudicatezza della protagonista, per la passionalità di Don Josè, per l’esuberante
fascino di Escamillo, per il dolce lirismo di Micaela, e, se tali prerogative vengono
eluse, si rimane veramente delusi.
In questo allestimento al Teatro della Fortuna di Fano il colore
spagnolo è completamente assente sia negli ambienti monocromatici che nei
costumi poveri e scialbi, tranne quello del torero. La scena fissa, che
riproduce il muro dello Sferisterio di Macerata, praticabile su due piani, assume
funzioni diverse nei vari atti: nel I atto rappresenta i bastioni di Siviglia (con
in alto soldati e fumatori affacciati sulla sottostante piazza del mercato con
bancarelle, un flipper con giocatori e bambini seduti a lato), nel secondo le
pareti illuminate da dietro dell’osteria (piena di gente ai tavoli che beve
birra, alcuni uomini arrivano con la valigia, alcune coppie amoreggiano), nel
terzo i fianchi della montagna innevata lungo i quali vengono fatti salire e
scendere con delle corde i pacchi dei contrabbandieri (già visto a Macerata), nel
quarto il muro dell’arena. Le scene di Nicola Bruschi sono funzionali,

ma, per quanto le luci di Bruno Ciulli
possano fare, l’impressione che rimane è l’uniformità. “Va be’, direte, vi sarete rifatti l’occhio coi costumi
colorati e svolazzanti di Carmen, con la sua lunga capigliatura nera sbattuta
ai quattro venti, col fiore rosso tra i capelli o magari tenuto tra i denti,
con la sua bellezza procace e le sue danze provocatorie…” Macché! Niente di
tutto questo. Il colore dominante dei costumi delle masse è il marrone nelle
varie gradazioni.

Carmen è piccoletta e rotondetta, ha i capelli corti alla
maschietta, indossa rossi pinocchietti e una corta camicetta che
lascia scoperta un po’ di pancetta opportunamente coperta da una nera veletta;
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La
regia di Francesco Esposito e i
costumi di Alessandro Lai non sono in sintonia
con “un’opera
tutta chiarezza e vivacità, piena di colore e di melodia", come la definiva il suo compositore.
Manca infatti l’effetto scenico dell’ "orda" colorata delle sigaraie,
della marcetta festosa dei bambini, del caratteristico corteo del torero, dei
vivaci costumi spagnoli, della spettacolarità delle scene di massa, ma
soprattutto manca il colore locale e a volte anche il movimento. Il più
credibile è Escamillo, vestito da torero. La scelta registica di far gettare
Carmen sul coltello di Josè è poi la meno credibile. Figuriamoci se in nome
della libertà e dell’indipendenza una persona compie un’azione simile. “Ma mi faccia il piacere” direbbe Totò. Le mediocri
coreografie del Corpo di ballo Altradanza sono di Domenico Iannone.

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Dario Di Vietri è un bel Don Josè istintivo e passionale, ha un bel timbro robusto e una bella cavata di voce, usata soprattutto di fibra con slanci acuti sostenuti e brillanti e squillo sicuro, irruente ma convincente è un bravo interprete con una grande voce.
Il baritono Omar Kamata, in sostituzione dell’infortunato Marcello
Lippi nel non facile ruolo di Escamillo,
è un macho imponente, usa con morbidezza un mezzo vocale consistente e tiene la giusta intonazione.
Andrea Vincenzo Bonsignore (Morales) ha voce baritonale di bel colore ma di poco spessore, Franco
Rossi (Zuniga) è un basso chiaro dalla voce aspra e poco ferma.
Cantano e recitano bene Giampiero Cicino (El Dancario), Andrea Schifaudo (El Remendado), Lara Rotili (Mercedes) e Paola Santucci (Frasquita).
Ben preparati sia il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, diretto dal nuovo maestro Mirca Rosciani sia il Coro di voci bianche “Incanto” e “Pueri cantores del Mezio Agostini” guidato da Francesco Santini.
Il direttore Marco Boemi guida con partecipazione e competenza la brava Orchestra Sinfonica G. Rossini, che si destreggia bene nella sfavillante policromia delle pagine spagnoleggianti, nella dolcezza delle frasi musicali che evocano il passato, nella forza delle linee cupe d’amore e di morte.

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