domenica 20 dicembre 2009

Carmen di Bizet - Teatro alla Scala, Milano.

"CARMEN" - scene Credit: Marco Brescia / Teatro alla Scala

Massimo Viazzo

Due le scommesse vinte dal sovrintendente del Teatro alla Scala Stéphane Lissner e da Daniel Barenboim, “maestro scaligero” fino al 2013, per questa importante inaugurazione di stagione. La venticinquenne protagonista Anita Rachvelishvili e la regista siciliana Emma Dante erano, infatti, al loro debutto sulla scena lirica, la prima freschissima reduce dagli studi alla Accademia della Scala, la seconda con esperienze registiche, anche di un certo rilievo, ma solo nell’ambito del teatro di prosa. Ed entrambe hanno convinto! Emma Dante ha mostrato doti fuori dal comune nel saper cogliere la verità scenica senza violentare la drammaturgia del libretto (in questa produzione sono stati anche ripristinati parte degli indispensabili dialoghi parlati). Poco importa se al posto della Spagna l’azione è ambientata nella sua Sicilia, cupa, bigotta, superstiziosa con tutto quell’apparato di processioni, crocifissi, baldacchini, turiboli e incensi. Bandito il folclore oleografico questa Carmen è fatta di fisicità, ritualità, sensualità mediterranea (le sigaraie al bagno restano indimenticabili) e… tante idee. Sarebbe davvero lungo elencarle tutte., e forse neanche sostanziale. E’ sufficiente affermare che Emma Dante è riuscita nell’impresa difficilissima di togliere quest’opera da quei cliché in cui la tradizione l’aveva ormai fatta incancrenire restituendocela viva, carnale, anche violenta (la zuffa tra le sigaraie nel primo atto, ad esempio, resta emblematica). Ed è normale che quando il pubblico (per fortuna solo una piccola, ma rumorosa, frangia) si trova disorientato, inizia a contestare. Ma, credo che già alla prima ripresa di questo allestimento nel novembre 2010 con Gustavo Dudamel sul podio parecchi censori reciteranno un bel “mea culpa”.

Anita Rachvelishvili (Carmen)Jonas Kaufmann (Don José) - Marco Brescia / Teatro alla Scala

Anita Rachvelishvili è una vera scoperta. La giovane georgiana ha cantato molto bene, con perfetta omogeneità timbrica, riuscendo ad infondere calore e passione in ogni frase. La sua non è parsa una Carmen diabolica, né tantomeno una femme fatale, ma una donna vera che seduce con il suo fascino naturale. Jonas Kaufmann (Don José) ha conquistato per il timbro brunito e per la spavalderia e prestanza dell’accento, ma soprattutto lascia ammirati la sua capacità di fraseggiare ombreggiando di chiaroscuri (cosa rara nei tenori di oggi) la linea musicale. Più ordinario il fraseggio di Erwin Schrott (Escamillo), ma l’attore è navigato. Un po’ a disagio vocalmente, invece, Adriana Damato (Micaela) L’interprete è pallida e la voce sembra non avere gli appoggi giusti per poter correre sempre in modo soddisfacente. La sua è stata comunque una prestazione in crescendo. Al termine della recita pensando alla direzione d’orchestra mi è sorta una domanda: sarebbe piaciuta a Nietzsche la Carmen di Daniel Barenboim? Cito Friedrich Nietzsche perché fu proprio il filosofo tedesco ad additare il capolavoro di Bizet come giusto antidoto per guarire dal “contagio” wagneriano (di cui pure lui non ne era rimasto immune). In effetti quella leggerezza, quella solarità, quella luce “africana” che tanto commossero Nietzsche non sembrano essere nelle corde del direttore di origine argentina. Il peso fonico degli archi e qualche stacco di tempo più lento dell’usuale non possono che rimandare proprio al compositore del Ring. Merito di Barenboim è di aver spesso strizzato la partitura lasciando affiorare bellezze segrete salvo poi con strappi inusitati reimmergerci nel clima fatale della vicenda (magistrale in tal senso la “scena delle carte”). E quel crescendo ritmico e dinamico calibratissimo ed avvolgente che nella taverna di Lillas Pastia porta ad una ridda quasi infernale ha del prodigioso. Un timoniere impavido alla guida di una nave che veleggia sicura, per una “prima” da incorniciare!


Premio Tiberini 2009

PREMIO LIRICO INTERNAZIONALE MARIO TIBERINI (XVIII ed.)
150° Anniversario di nozze del tenore Mario Tiberini col soprano Angiolina Ortolani


Matteo Pais, Giosetta Guerra, Serena Gamberoni, Michele Suozzo, Rosita Tassi, Carlo Di Cristoforo, Il sindaco Antonio Di Francesco, l'Assessore alla cultura Regione Marche Vittoriano Solazzi
foto di Davide Salviani

Il 28 novembre 2009 l’Associazione Musicale Mario Tiberini ha festeggiato il 150° anniversario del matrimonio del tenore Mario Tiberini con il soprano Angiolina Ortolani, avvenuto a Barcellona (Spagna) nel 1859, conferendo il Premio Lirico Tiberini d’oro ai coniugi -tenore e soprano- FRANCESCO MELI e SERENA GAMBERONI, come validi eredi della storica coppia nell’arte del belcanto, per il carisma e il talento teatrale, per l’incantevole affiatamento vocale e scenico, per il modo di porgere, accentare e fraseggiare, per la capacità di usare a fini espressivi le eccellenti doti vocali, e il Tiberini d’argento alla coppia basso e soprano Carlo Di Cristoforo e Rosita Tassi con le seguenti motivazioni: Carlo Di Cristoforo, per la bellezza e la maestosità della voce dal timbro denso e suggestivo, per una presenza scenica autorevole e conturbante, per un fraseggio ampio e musicale con cui delinea il dramma che investe i grandi personaggi verdiani; Rosita Tassi per il colore e la musicalità della voce, per l’estensione e la generosità del suono, che, uniti all’incisività dell’accento e all’espressività lirica della parola scenica, la rendono valida interprete dei grandi temi affettivi delle eroine del melodramma.
Ha ricevuto il Tiberini d’oro anche la trasmissione di Radio Tre LA BARCACCIA, come unico programma d’opera lirica nel palinsesto quotidiano radiotelevisivo italiano, molto seguito da melomani e neofiti, che si avvale dell’alta competenza e dell’arte affabulatoria di due insostituibili conduttori e noti critici musicali: Enrico Stinchelli e Michele Suozzo.
La serata di gala per la consegna dei premi si è tenuta al Teatro Tiberini San Lorenzo in Campo (PU), che ha ospitato quest’anno la XVIII edizione del Premio, il cui presidente onorario è il basso americano Samuel Ramey, premiato nella prima edizione.

Pais, Gamberoni, Di Cristoforo
foto di Davide Salviati

Gli artisti, purtroppo non tutti presenti per motivi di salute o per impegni inaspettatamente sopraggiunti, hanno intrattenuto il pubblico, sempre numeroso e osannante in questa manifestazione, con le più note arie delle opere dei nostri grandi compositori dell’800. Nella prima parte Carlo Di Cristoforo ha cantato due arie di Verdi Il lacerato spirito dal Simon Boccanegra e Ella giammai m'amò dal Don Carlo e una pagina tratta da Salvator Rosa, un’opera di Gomes poco conosciuta, Di sposo, di padre; Rosita Tassi si è cimentata in Puccini (Un bel dì vedremo da Madama Butterfly e Vissi d'arte e Il tuo sangue, il mio amore volea…da Tosca) e di Gastaldon (Musica proibita). Nella seconda parte Serena Gamberoni ha estasiato il pubblico con una voce magnifica e magnificente, veramente splendida in tutta la gamma, cantando Deh vieni, non tardar da Le Nozze di Figaro di Mozart, Quando m’en vo da Bohème di Puccini, O mio babbino caro da Gianni Schicchi di Puccini e il duetto dal Don Giovanni di Mozart Là ci darem la mano con Carlo Di Cristoforo. Tutti i cantanti sono stati accompagnati al pianoforte da Matteo Pais. Nell’Intermezzo Michele Suozzo, in rappresentanza della Barcaccia, ha proiettato e commentato due interessanti edizioni di Carmen, una delle quali del 1914. Alla fine la premiazione sotto una pioggia di fiori seguita da un brindisi vero in palcoscenico e l’ingresso di sua maestà la torta, ideata e realizzata dal Prof. Mangialardi con alcuni suoi alunni dell’Istituto Alberghiero Panzini di Senigallia, torta che riproduceva lo spaccato di un teatro, con la coppia Tiberini-Ortolani in cioccolata sul palcoscenico. L’ideatrice ed organizzatrice del premio Giosetta Guerra, che promuove la lirica anche nelle scuole, ha avuto due giovanissimi ma già esperti collaboratori come conduttori della serata, Chiara ed Edoardo Gamurrini, di 12 e 10 anni, che hanno una certa dimestichezza del palcoscenico sia come presentatori che come interpreti della parola sia cantata che parlata

torta, foto di Davide Salviati



Elektra di Strauss - Metropolitan Opera House, New York

Foto: Susan Bullock, Evgeny Nikitin © Marty Sohl / Metropolitan Opera©

Ramón Jacques


Il soprano tedesco Hildegard Behrens ha sempre mantenuto una relazione strettissima con questo teatro in cui ha cantato per ben 171 volte. Uno dei ruoli più rappresentativi per lei è stato Elektra di Strauss, sempre nella produzione firmata da Otto Schenk che è stata utilizzata anche questa volta. Per questo motivo, proprio in memoria del grande soprano, scomparsa in agosto, il teatro ha deciso di dedicarle questa rappresentazione. Le scenografie disegnate da Jürgen Ross e Otto Schenk, consistenti in un muro che copriva in lungo e in largo tutta la scena del Met, con una scala al centro che portava ad una porta di legno (l’ingresso di un palazzo), e con l’enorme figura del cavallo di Troia caduto sul palcoscenico, visualmente attraenti per lo spettatore, paiono ormai superate dal punto di vista artistico, ostacolando esse anche il libero movimento dei solisti e di tutti gli artisti sulla scena. I costumi variopinti parevano adatti all’epoca in cui è stata ambientata la vicenda e molto apprezzabile il lavoro alle luci di Gil Weschler che è riuscito ad esaltare i differenti stati d’animo dei protagonisti e la tensione crescente della trama con brillanti cambi, dal rosso al giallo, al bianco e al nero. La regia di David Kneuss, come la maggior parte degli spettacoli tradizionali al Met, è stata sostanzialmente rispettosa del libretto. Venendo all’orchestra, Fabio Luisi ha fatto un lavoro superbo d’accompagnamento, esaltando l’ampia gamma di colori musicali della partitura che va dal lirismo sublime, quando i personaggi esprimono la tenerezza e l’amore, alla dissonanza più atonale quando si attraversano i confini della sanità mentale. La concertazione di Luisi è parsa sicura e l’orchestra ha ben risposto a parte la sezione degli ottoni, molto importante in questa orchestrazione e a volte fuori sincrono. Al suo debutto locale il soprano inglese Susan Bullock si è mostrata completamente immedesimata nel personaggio di Elettra, vulnerabile all’inizio, manipolatrice nel suo incontro con Klitämnestra e patologicamente ossessiva nel finale dell’opera anche se la sua danza estatica di trionfo pareva sovradimensionata. Il suo canto è stato intenso, potente, omogeneo e in grado di “bucare” il sontuoso tessuto orchestrale. Il soprano Deborah Voigt, riconosciuta interprete del repertorio straussiano, ha dimostrato di possedere anche un tono brillante dando profondità e forza drammatica al personaggio di Chrysotemis, reso con autorevolezza. Felicity Palmer ha creato una nevrotica e disturbata Klitämnestra, restituita con la sua gran voce di mezzo-soprano (che però sembrava a volte fuori controllo e un po’ stridente nell’emissione), ma sempre Molto intensa. L’Oreste del basso-baritono Evgeny Nikitin ha soddisfatto il pubblico per la sua adeguata proiezione vocale e il suo stile raffinato mentre il tenore Wolfgang Schmidt ha reso con temperamento il ruolo di Egisto. Corretti i comprimari

martedì 15 dicembre 2009

Šárka di Janáček / Cavalleria Rusticana di Mascagni - Teatro La Fenice, Venezia

Foto: Šárka di Janáček / Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni © Michele Crosera©

Massimo Viazzo

L’idea di smembrare il “dittico” più famoso di tutto il melodramma giunge a compimento con questo allestimento incrociato di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Šárka di Janáček quest’ultima qui a Venezia in prima rappresentazione italiana. Rispetto alla stravagante accoppiata della scorsa stagione (Schönberg e Leoncavallo con i rispettivi Von Heute auf Morgen e Pagliacci), la relazione tra Mascagni e il grande compositore boemo pare di più immediata lettura. In tal senso nel programma di sala viene pubblicata la celebre recensione del debutto di Cavalleria a Brno nel 1892 scritta dal “critico musicale” Leoš Janáček da cui traspare un’ammirazione incondizionata (e sorprendente) verso il compositore toscano. Ma tant’è, Cavalleria Rusticana fu amata anche da Gustav Mahler… L’opera oggi appare un po’ datata nel suo verismo sovrabbondante e gli interpreti di questa produzione un po’ convenzionale firmata da Ermanno Olmi (una gigantesca croce opprimente e svettante - peraltro di grande effetto, scolpita con estro futurista da Arnaldo Pomodoro - invade il palcoscenico vuoto, mentre i fondali paiono illuminati un po’ monotonamente) non hanno saputo sottrarsi a vecchi stereotipi. Così i due protagonisti Anna Smirnova e Walter Fraccaro impostano la loro interpretazione soprattutto su un piano muscolare lesinando sulle sfumature di fraseggio e sulla varietà d’accento. Non molto seducente la Lola di Elisabetta Martorana e neanche Angelo Veccia è riuscito ad illuminare particolarmente la parte di Alfio. Bruno Bartoletti, infine, non ha imposto una lettura veramente personale e così l’opera è arrivata in fondo regalando pochissime emozioni. Šárka fu iniziata nel 1887 per poi essere dimenticata dallo stesso compositore (dopo il divieto di tradurla in musica posto dall’autore del dramma a cui si ispira il libretto). Ma quando Šárka ricomparve improvvisamente negli anni ’20 del Novecento Leoš Janáček, ormai notissimo, pensò che era finalmente arrivato il suo tempo e così dopo aver effettuato ritocchi sulla conduzione della linea melodica, incaricò un allievo di orchestrare l’ultimo atto e ne curò in prima persona l’allestimento. L’opera musicalmente è seducente: Šárka è una sorta di walkiria boema che vuole vendicarsi contro un mondo ormai caduto nelle mani degli uomini dopo la morte di Libuše (figura mitica immortalata nel capolavoro operistico di Smetana). Ma sarà proprio un uomo, Ctirad, a farla cadere, trafiggendola emotivamente. Šarka, dopo avergli teso un’imboscata ed averne sentenziato la morte cercherà l’estremo abbraccio (con uno Ctirad ormai cadavere) trafiggendosi per poi gettarsi, disperata, su quella pira (quasi wagneriana) che suggella l’ultimo atto di questo piccolo capolavoro. Ermanno Olmi sceglie la via della realizzazione quasi oratoriale. La regia non opera direttamente sul movimento dei cantanti o delle masse corali (coro -soprattutto la sezione femminile- non in perfetta forma), ma le pose sono per lo più statuarie nella ricerca di una solennità epica che pare ben definita nell’ultimo quadro. Ma Bruno Bartoletti non si lascia sedurre dalla malia dei colori della partitura né tantomeno dalla sensualità che trabocca da molte pagine realizzando nel complesso un’interpretazione troppo prudente per essere veramente coinvolgente. Sorprese positive, invece, dai due protagonisti, il tenore Andrea Carè (Ctirad) dalla voce di interessante smalto timbrico e il soprano Christina Dietzsch (Šárka) a suo agio soprattutto nelle parti più liriche. Un po’ stentoreo, invece, Mark Steven Doss nei panni di Přemysl e non più che corretto Shi Yijie (Lumír) che ha la responsabilità di dare l’avvio alla commovente preghiera finale.

Il Trittico - Metropolitan Opera, New York

Foto: Patricia Racette (Il Tabarro, Suor Angelica). Ken Howard / Metropolitan Opera

Ramón Jacques

I tre personaggi femminili de “Il Trittico” possiedono qualità drammatiche e vocali tanto differenti che attualmente è poco comune vedere una sola cantante interpretarli tutti e tre nel corso della stessa rappresentazione. Ma un caso simile è occorso nella riproposta recente al Met con il soprano americano Patricia Racette, che possiede un’ottima vocalità e le doti attoriali necessarie per interpretare i personaggi pucciniani (come ella ha già fatto nel passato con Manon Lescut, Tosca e Madama Butterfly, quest’ultima divenuta una sua specialità). Vocalmente il colore timbrico è piacevole e la sua voce è omogenea in ogni registro. E ciò lo si è notato al meglio in Suor Angelica dove si è immedesimata completamente con il personaggio e la sua tecnica vocale si è mostrata salda ed efficace, particolarmente in “Senza mamma” dove ha potuto comunicare sentimento e commuovere. Invece la sua Giorgetta è stata solo corretta sia vocalmente che sulla scena, e Lauretta discreta per una certa pesantezza del mezzo vocale in rapporto con la vocalità richiesta dal personaggio (e anche per i segni di una evidente affaticamento). Nel Tabarro ha convinto Salvatore Licitra che ha dato vita ad un Luigi virile e autoritario, di robusta intonazione e volume, e il baritono Željko Lučić, che come Michele ha messo in mostra un canto solo muscolare e poco sfumato. Il mezzosoprano Stephanie Blythe ha dato una generosa partecipazione come Frugola (così come ha interpretato correttamente la Zia Principessa e Zita).
Gianni Schicchi è stato impersonato con divertita ciarlanateria da Alessandro Corbelli, adatto a questo tipo di ruoli di carattere burlesco e gioviale, con una voce omogenea e pastosa. Il tenore Saimir Pirgu ha fatto uno splendido debutto al Met come Rinuccio, con una voce lirica e luminosa di timbrica suadente, elegante nel fraseggio e nella proiezione. In scena si è mostrato attivo e dinamico, ma sempre con naturalezza. Sul podio Stefano Ranzani ha concertato con gusto ed entusiasmo estraendo con mano sicura musicalità e tensione dalla partitura. Infine un bravo va per l’allestimento scenico (creato nel 2007) al regista Jack O’Brian e a Douglas Schmidt, la cui maestosa scenografia molto realistica che occupava tutto lo spazio del palcoscenico proiettava lo spettatore nel XX secolo (con l’enorme barcone a lato della Senna a Parigi, il monastero di Suor Angelica e l’opulenta magione di Buoso Donati). Ma questa esuberanza scenica corrisponde ad un Met del passato che lentamente sta scomparendo.

Le Nozze di Figaro - Metropolitan Opera, New York


Foto: Luca Pisaroni (Figaro), Danielle de Niese (Susanna). Marty Sohl / Metropolitan Opera.

Ramón Jacques

E’ facile dirlo a parole, però assistere alla 451esima rappresentazione de “Le Nozze di Figaro” al Metropolitan significa percepire ed immaginare una gran quantità di spettacoli meravigliosi (altri meno), e un arduo lavoro con i migliori cantanti, registi e direttori d’orchestra. Con l’arrivo, pochi anni fa, della nuova amministrazione, diretta da Peter Gelb, si è instaurata la tendenza a rinnovare gli allestimenti, dando agli stessi un aspetto più moderno, austero e, come è successo recentemente, polemico. Pertanto, la produzione scenica di Jonathan Miller utilizzata in questa rappresentazione è una delle poche messe in scena di stampo tradizionale che ancora viene utilizzata dal teatro e che di sicuro scomparirà prossimamente, indipendentemente dal fatto che sia stata creata nel 1998 e preservi ancora la solennità della sua attrazione visiva, l’opulenza e l’eleganza del suo disegno, dei costumi e della brillante gestione delle luci. Miller concepisce quest’opera mantenendo la storia a stretto contatto con la visione ed i costumi del 18esimo secolo, permettendo così alla partitura musicale di raccontare la storia sovversiva nel modo in cui probabilmente Mozart lo desiderava. Della regia si è incaricato Gregory Keller, che ha permesso agli attori di affrontare i ruoli con naturalezza, in modo semplice e con giusta comicità. Il cast si è rivelato solido sia a livello vocale che interpretativo. Il baritono Luca Pisaroni ha cantato il suo ruolo con un colore timbrico gradevole, con voce proiettata in modo saldo e omogeneo, con dizione impeccabile e ha dato vita ad un Figaro estroverso ed espressivo.
Danielle de Niese ha creato una Susanna persuasiva, giocosa e civettuola, con voce di timbro lirico, leggero e molto agile. Il mezzosoprano Isabel Leonard ha dato vita e allegria al personaggio di Cherubino con la sua voce di tono scuro interessante e particolare, duttile ed emozionante. Il Conte di Almaviva è stato interpretato dal francese Ludovic Tézier, che ha attribuito al suo personaggio un carattere arrogante, talvolta piuttosto rigido nei movimenti scenici, ma di una linea di canto impeccabile e musicalmente interessante. Nel suo debutto locale come Contessa, Annette Dasch ha dimostrato ricercatezza, eleganza ed ha cantato le sue arie con sicurezza ed accuratezza. Meritano un plauso anche il leggendario mezzosoprano irlandese Ann Murray come Marcellina, John Del Carlo come Bartolo, Greg Fedderly come Don Basilio, così come il coro. Fabio Luisi ha diretto l’orchestra con enfasi nei momenti più dinamiici contenuti nella partitura, ponendo sempre in primo piano la musica di Mozart e tenendo in giusta considerazione le voci.

Il Barbiere di Siviglia - Los Angeles Opera

Foto: Robert Millard / LA Opera

Ramón Jacques

La ripropoposta a Los Ángeles del sempre divertente Barbiere di Siviglia è stata realizzata utilizzando l’allestimento ideato da Emilio Sagi e proveniente dal Teatro Real di Madrid come parte integrante dell’accordo di interscambio tra le due istituzioni musicali.Per l’allestimento delle opere ispirate alla Spagna (El Gato Montes di Manuel Penella, Luisa Fernanda di Moreno Torroba, o Carmen di Bizet) si è ricorso nuovamente al lavoro del regista asturiano: nessuno meglio di lui sa plasmare e far risaltare nelle sue produzioni il carattere, le sfumature e le tradizioni del suo paese. In questa occasione Sagi ha concepito una Siviglia moderna, luminosa, assolata (con l’illuminazione brillante di Eduardo Bravo e le scene funzionali di Llorenç Corbella), con pochi elementi, ballerini di flamenco ed edifici bianchi tipici dell’Andalusia, così come di un salone con giardino sullo sfondo. I costumi di Renata Schussheim, di color pastello per i protagonisti, e tipo Arlecchino in bianco e nero per il resto della compagnia (coro compreso) completavano con freschezza e visualmente in modo suggestivo la scena. La regia ripresa da Javier Ulacía, regista spagnolo, è parsa discreta, anche se, come è d’abitudine in questo tipo di opere, esiste la tendenza a forzare e ad esagerare la comicità (quando invece le trame rossiniane sono già di per sè briose). Il problema sorge quando le innumerevoli gags, alcune un po’ telefonate invero, incidono sulla fluidità musicale dell’opera, come nell’aria di Rosina “Contra un cor”, ad esempio, che è stata interrotta davvero troppe volte. Risultati alterni per la resa orchestrale.La direzione di Michele Mariotti, sicura per evidente consapevolezza stilistica, ha convinto meno in relazione alla scelta dei tempi, a volte molto dinamica e giubilante, a volte lentissima (il che sommata alle interruzioni sceniche ha dilatato il primo atto fino a durare quasi un‘ora e cinquanta minuti). Il ruolo di Figaro è stato interpretato dal baritono Nathan Gunn che ha messo in mostra buone qualità vocali e corretta proiezione, ma l’interpretazione è parsa pallida, carente di perizia e un po’ estranea all’azione. A sua volta, ha incantato Joyce Di Donato con la sua spiritosa e astuta Rosina, molto graziosa, di timbro splendido, omogeneo e sicurissima nella coloratura. Juan Diego Flórez ha creato un divertententissimo Almaviva, raffinato nel timbro, nella dizione e nel fraseggio, che ha coronato la su prestazione con una stupefacente interpretazione di “Cessa di più resistere” che ha suscitato l’entusiasmo del pubblico. Bruno Praticò ha dominato il ruolo di Don Bartolo sia vocalmente che attorialmente e il basso Andrea Silvestrelli che è ormai un basso molto apprezzato nel circuito nordamericano dei teatri lirici. Ha interpretato un simpatico e malizioso Don Basilio, ben cantato nei suoi interventi, anche se la sua potentissima voce davvero imponente, ideale per il repertorio wagneriano nel quale si è imposto, non pare troppo adatta alla leggerezza del canto rossiniano. Corretto il coro e il resto del cast, con una citazione per il prottente baritono messicano José Adán Pérez nei panni di Fiorello.

giovedì 10 dicembre 2009

Ottone in Villa di Antonio Vivaldi - Teatro Olimpico di Vicenza

Foto: Marina Bartoli; Maria Laura Martorana / Guido Turus

Francesco Bertini ("Corriere del Teatro”)

Il Teatro Olimpico di Vicenza ospita, sempre all’interno delle Settimane Musicali, un’opera di grande interesse, “Ottone in villa” di Antonio Vivaldi, di raro ascolto e per la prima volta in epoca moderna nella città che la vide nascere nel lontano 1713. Il lavoro del “Prete Rosso” coglie una situazione ingarbugliata che mette in scena vicende di “infedeltà, ambiguità sessuale, menzogne, simulazione e dissimulazione”, come ci riporta Vittorio Bolcato nel saggio introduttivo contenuto nel cospicuo libretto di sala, ambientandole in una “Villa delitiosa di Roma”, ritiro dell’imperatore Ottone. Raffinata esecutrice musicale la compagine orchestrale de L’Arte dell’arco, diretta dal pregevole Federico Guglielmo, offre un’interpretazione convincente in un repertorio, quello vivaldiano, che padroneggia da sempre, assecondando bene il cast vocale, punta di diamante della serata. Il sopranista rumeno Florin Cezar Ouatu ha acquisito maggiore sicurezza in tutta la gamma e padroneggia, impeccabilmente, la propria parte intrisa di difficoltà, non soccombendo alle ardue agilità e trovando, nei passaggi lenti, la giusta espressività grazie ad un colore vocale di prima qualità. Non da meno le signore, cominciando dalla sfolgorante Marina Bartoli impegnata nel ruolo en-travestì di Tullia - Ostilio che le ha permesso di sfoggiare le proprie encomiabili doti musicali, sorrette da ottima tecnica, al pari della collega Maria Laura Martorana la quale ottiene, dalle sue elogiate frequentazioni del repertorio classico-barocco, sempre nuovi successi personali, come nel caso vicentino, nei panni della protagonista Cleonilla, ruolo impervio risolto con brillante sicurezza. A ricoprire i panni del protagonista, l’imperatore Ottone, il mezzosoprano norvegese Tuva Semmingsen, più convincente in acuto che non nella zona centrale, della quale sottolineiamo la dolcezza del timbro e l’accuratezza del canto. Peccato per il Decio di Luca Dordolo, inadatto al difficile ruolo tenorile assegnatoli che annovera alcuni pezzi solistici irti di difficoltà. L’esecuzione in forma di concerto non ha privato della dovuta attenzione lo spettacolo, permettendo, anzi, di cogliere le raffinatezze dell’esecuzione; pubblico non numeroso ma attento e soddisfatto al termine.

giovedì 3 dicembre 2009

Conferencia de Puccini en Buenos Aires - Università di Bologna, Buenos Aires


Con el auspicio institucional de
Istituto Italiano di Cultura
Buenos Aires, Argentina


Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Representación en Buenos Aires

Presenta

Foto: Puccini en Buenos Aires

Gustavo Gabriel Otero
Daniel Varacalli Costas
'Puccini en la Argentina'
Conferencia sobre la visita de Giacomo Puccini a Buenos Aires de 1905 y la importancia de la Argentina en la carrera mundial de las obras del maestro de Lucca
Introduce
Francis Korn
Profesora, Investigadora superior del Conicet,
Miembro de la Academia de Ciencias
“Buenos Aires, 1905: la ciudad y su historia”
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Auditorium – Rodriguez Peña 146415 diciembre 2009 h. 19,00

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Se agradecen por la colaboración:
Dr. Ramón Jacques, Una Voce Poco Fa
Sig. Renzo Bellardone - Associazione Culturale La Voce - Alice Castello (Italia)






martedì 1 dicembre 2009

Intervista a Marina Bartoli promettente soprano italiana

Foto: © Marina Bartoli; Ercole sul Termodonte, Spoleto Festival 2006; "Il finto Turco" di N.Piccinni, Teatro "Olimpico" di Vicenza- Guido Turus ©

Da quella inesauribile fucina di voci talentuose che è l'Italia, ecco in Marina Bartoli una vera specialista di opera antica e barocca. Questa luminosa interprete, versata anche nella musica pop, nata a Mantova e diplomata in canto al Conservatorio "C. Pollini" di Padova ha prestato la sua voce nitida e dolce, e la sua sensibilità e bellezza per l'interpretazione e il recupero di ruoli come: Annio ne “La Clemenza di Tito” di B. Galuppi, Agnesina ne “L'Inmico delle Donne” di B.Galuppi, Ippolita nell' “Ercole Sul Termodonte di A.Vivaldi, Alinda, Oronte ed Arpago ne “L’ Incoronazione di Dario” di A.Vivaldi, Fortuna, Allegrezza e Venere ne “Il Giustino” di G.Legrenzi, Dirindina ne “La Dirindina” di D.Scarlatti, Tullia nell’ “Ottone in Villa” di A.Vivaldi, Arianna ne “Il Giustino” di G.Legrenzi, Lucio ne “IL Finto Turco” di N.Piccinni etc. Ha cantato sotto la direzione di molti celebri Direttori: Claudio Scimone, Gustav Leonhardt, Bob Van Asperen, Philippe Herreweghe, Alan Curtis, Thomas Hengelbrock e collabora con vari gruppi ed orchestre: L’Accademia Bizantina, L’Arte dell’Arco, Delitiae Musicae, L’Orchestra di Padova e del Veneto, Il Complesso Barocco, I Virtuosi delle Muse. La rivista Opera Now di Londra l'ha inserita nella categoria Young Artists, who’s hot? Ha ottenuto una Nomination nell'annuario 2009 di "Opernwelt" (Berlino, gli oscar della lirica) come artista più promettente.

Quando e come hai scoperto di avere una "voce"?
A tre anni cantavo a squarciagola improvvisando seconde voci e cercando di sovrastare mia sorella e i miei cugini che venivano a cantare a casa nostra (mia mamma si divertiva a farci imparare delle canzoni accompagnandoci alla chitarra): ho recentemente sentito delle registrazioni in cassetta delle mie “Performance da primadonna” e le ho trovate esilaranti. Personalmente ho scoperto la mia voce verso gli 11 anni, quando -assieme a mia sorella maggiore- sono stata scelta dai professori di Musica per cantare davanti a tutta la Scuola “Happy Xmas (war is over)” di J.Lennon in occasione del Concerto di Natale dell’Istituto. Da quel momento in poi ho cominciato a dedicarmi alla musica leggera (da ragazzina cantavo canzoni Folk e Pop in piccoli locali cittadini) e più tardi alla lirica

Vocalmente come ti definiresti?

Sono un Soprano Lirico-leggero.

A chi non conoscesse la tua voce, cosa faresti ascoltare?

Mi piacerebbe fare ascoltare un’Aria del ‘700 cantabile, dolce (un Andante amoroso per esempio**), perché è in questo genere di scrittura che so di poter dare il meglio. E a chi aprezza (come me) il crossover, canterei l’Aria “Think of me” dal Musical “The Phantom of the Opera” di L.Webber.

** il “Tu virginum corona” dal Mottetto KV 165 “Exultate, Jubilate” di W.A.Mozart / “Nun beut die Flur” da “Die Schoepfung” di F.J.Haydn / “Deh tacete” da “Il Finto Turco” di N.Piccinni etc.

Di quanti ruoli è formato il tuo repertorio?

Da circa una ventina di ruoli, tutti tratti da Opere del Sei e Settecento.

Come nasce il tuo interesse verso il barocco?

Il mio interesse per il Canto Barocco (per Barocco intendo un periodo di tempo molto ampio, che abbraccia tutto il 600 e tutto il 700), è stato frutto di semplice folgorazione. Quando sono stata ammessa in Conservatorio la mia cultura musicale classica si limitava esclusivamente alla letteratura pianistica (studiavo infatti il Pianoforte classico da diversi anni, ma non avevo mai nutrito interesse verso il Canto lirico, solo per quello leggero). Un giorno, le mie insegnanti di Conservatorio mi proposero di leggere un’Aria di Haendel (“Ne men con l’ombre” dal “Serse”) ed io cantandola fui subito pervasa da un senso di benessere e piacere: non conoscevo davvero nulla del repertorio in cui ora mi sono specializzata, ma mi sono fin da subito sentita portata ad esso. E’ stato un amore viscerale, del tutto istintivo: avvertivo chiaramente che quello era il mio “mondo” musicale. Cantare Arie del Sei e Settecento era semplicemente la cosa che mi veniva con più naturalezza, facilità, e che anche mi costava meno fatica. Fin da subito ho cominciato ad ascoltare e leggere Musica Antica con grande voracità, ed ho sempre cercato di frequentare tutti i corsi in cui fosse possibile approfondirne la conoscenza della prassi esecutiva.

Un ruolo che ti ha portato fortuna. Lo canti ancora?

Vengo spesso chiamata per Opere poco note, magari riesumate da manoscritti a lungo dimenticati e per questo non inserite nella consueta programmazione dei teatri, quindi non mi è ancora capitato di ricantare lo stesso ruolo in più di una produzione. Ma non me ne dispiaccio: trovo infatti che la continua novità (frutto della ricerca e conseguente scoperta di preziose perle barocche) sia proprio uno dei punti di forza della Musica Antica.

Qual è il tuo personaggio preferito, quello in cui ti immedesimi di più?

Senza dubbio Donna Elvira del „Don Giovanni“ di Mozart. Conosco tutte le sue strepitose Arie a memoria, mi identifico nel suo temperamento, trovo interessanti e incredibilmente vere tutte le pieghe del suo personaggio. Ma purtroppo è per un’altra voce, non certo la mia.

C’è un cantante, un regista o un direttore che ha influenzato positivamente la tua carriera?


Ce ne sono diversi, ma non uno in particolare.

Cosa ne pensi dell'attuale scena italiana?

Mi sembra assai critica per l’arte e la cultura in generale. Ci sono moltissimi giovani preparati e talentuosi che nonostante studio continuo, sforzi e tenacia non riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro e vivono in una continua ed estenuante situazione di precarietà. Spero in una ripresa progressiva nel 2010: voglio essere ottimista.

Hai progetti per l’immediato futuro?
Concerti barocchi in Germania e Svizzera, un videoclip per una canzone Pop e l’acquisto di una Viola da Gamba: sono appena stata ammessa al Conservatorio di Venezia e non vedo l’ora di cominciare a studiare questo meraviglioso strumento!

Una curiosità:La musica che ascolti di sottofondo a casa tua?

Non la musica classica: per quella ho necessità di attenzione e totale silenzio. Ascolto cantautori italiani (Samuele Bersani, Bruno Lauzi, Franco Battiato, i Tazenda), Folk-rock Usa (Indigo Girls, Jim Croce, Simon & Garfunkel), grandi interpreti femminili (Mia Martini, Noa, Tori Amos, Céline Dion) e più in generale tutta la musica Pop che è di volta in volta sulla scena attuale (ultimamente per esempio mi piace molto il britannico Mika: una sorta di “Evirato cantore” del nostro secolo!).

Ramón Jacques

Matthias Goerne Recital - Firenze, Saloncino del Teatro della Pergola.

© 2008 Marco Borggreve for harmonia mundi
Massimo Crispi

Per il ciclo l’Arte del canto (XIII appuntamento), rassegna interna alla stagione degli Amici della Musica di Firenze si è svolto alla Pergola il secondo recital di Matthias Goerne, sempre nel nome di Franz Schubert (il terzo secondo il calendario, ma secondo perché il primo è stato annullato e sarà recuperato il prossimo marzo).
Schubert è particolarmente congeniale a Goerne, e il baritono tedesco ha saputo trasportarci nella sua visione di Schubert, che è un po’ diversa da quella che correntemente si ascolta. La sua superba voce, che non ci dispiace definire regale (se per regale si intende qualcosa di superiore, qualcosa di autorevole, qualcosa di benevolente e paterno in qualche modo, al di là di ogni considerazione filomonarchica da cui siamo distanti anni luce), se non addirittura imperiale, dai connotati netti eppure sfuggenti allo stesso tempo, ha illustrato con grande convinzione questo punto di vista.
E Schubert ha una grande importanza sul lavoro che attualmente interessa l’attività di Goerne: una quasi integrale edizione della sua produzione liederistica, accompagnata da recital, quasi a confermare che non è solo una scelta di lasciare una documentazione ma anche una necessità di comunicare a un pubblico dal vivo le sue interpretazioni, col pathos e il coinvolgimento che solo il recital dal vivo può creare.
Il programma che Goerne ha scelto era suddiviso in quattro parti, in cui si svolgevano alcuni tra i più importanti temi seguiti da Schubert nella sua sterminata produzione. Il primo era dedicato alla classicità e alla visione del mondo antico e mitologico che ne avevano i poeti neoclassici e romantici. E il titolo che Goerne ha dato al suo ultimo CD è proprio Heliopolis, Eliopoli, la città dell’arte in un Egitto dedito al culto della luce, che illuminava gli artisti, i suoi figli più cari. E verso questa luce Schubert era sempre teso, così come verso una terra ideale, sempre in un metaforico viaggio, attraverso il tema del Wanderer, e come pure alla ricerca di un altro da sé, il tema del sosia, del doppio, dell’addio, di una felicità che non albergava nella sua misera stanzetta e nella solitudine artistica nel centro di una Vienna molto oscurantista e conservatrice sotto l’impero di Francesco II/I. I poeti dei brani di questa serata erano i più frequentati da Schubert, Mayrhofer e Goethe in primis, oltre che il quasi omonimo Franz Schober.
Die Götter Griechenlands era il Lied che apriva questo viaggio schubertiano di Goerne, seguito da Philoktet, Fragment aus dem Aischylos, Der etnsühnte Orest e i due Aus Heliopolis. Poi An die Leier, Meeres Stille, Atys e lo Schifferers Scheiderlied. La seconda parte, eccezion fatta per Der König inThule, era più sul tema del viaggio, della natura e degli addii, con Wanderers Nachtlied, Der Hirt, Das Heimweh, Der Kreuzzug e l’ultimo, straziante Abschied. La chiave interpretativa di Goerne in generale era una malinconia di base con dei momenti di rasserenamento e di apertura verso quell’anelito alla luce e alla felicità, una Sensucht che tanto caratterizza l’opera di Schubert e che il baritono ha espresso magnificamente.
La maniera in cui passava da frasi gravi ricche di armonici e sonore, mai spinte ma sempre accompagnate dal sapiente uso dellla respirazione e cesellate con una grande perizia tecnica, al registro acuto sempre morbido e utilizzando un registro misto al falsetto, indugiando sui gruppetti e sulle ornamentazioni, scandendo ogni singola nota in un legato magistrale (chi ha detto che in tedesco non si può legare il canto?), era assolutamente impeccabile e il lavoro di palato e di cavità che riusciva a creare Goerne per dare lo spazio ai suoi mille colori diversi era unico. L’atteggiamento corporeo era quasi allucinato, una faccia spiritata, quasi percepisse i fantasmi schubertiani nel buio della sala davanti ai suoi occhi, impressionante, anche se talvolta il suo sottolineare le sillabe e le vocalizzazioni con piccoli movimenti del corpo poteva apparire un po’ fuori luogo.
Si è detto spesso che Matthias Goerne è l’erede di Fischer Dieskau. Noi non siamo d’accordo. A parte il fatto che la voce di Goerne è molto più interessante di quella di Dieskau, in Dieskau era meno frequente il vero canto, mentre albergava una precisione a livelli maniacali della pronuncia, sacrosanta. Apprezzabilissimo, per carità, però alla lunga Dieskau riusciva a risultare freddo se non gelido, pur se l’artista ha segnato un punto fermo nell’interpretazione del Lied e una sua rinascita. Goerne della pronuncia se ne fregava, al contrario, per privilegiare il canto e in effetti è difficile ascoltare oggi quanta musica ci sia nel canto schubertiano, con una tavolozza di colori sonori a cui non siamo abituati. Che se ne fregasse è naturalmente un’esagerazione per dire che anche se qualche parola e qualche frase non erano eccessivamente chiare o messe a fuoco perché il suono coperto non consentiva un’articolazione idiomatica così precisa, il risultato era comunque eccellente ed emozionante perché, appunto, Goerne faceva scaturire dalla linea vocale schubertiana tutta la sua carica espressiva e immaginifica.
Ma non vorrei che si pensasse che vogliamo tralasciare l’altra metà di questa serata emozionante e a cui Goerne deve certamente parecchio: il pianista Alexander Schmalcz. Dei pianisti con cui lavora abitualmente Matthias Goerne questo è forse il più schubertiano di tutti. Se il baritono tirava fuori tutti i colori del cielo e della terra il pianista tirava fuori anche quelli di tutti gli altri pianeti del sistema solare. Raramente abbiamo ascoltato i liquidi arpeggi di Meeres Stille e la corsa ondeggiante dello Schifferers Scheidelied, eseguiti così appropriatamente e preparatori alla linea del canto, ora sospesa, ora malinconica, ora intrepida. E lo sposalizio della tastiera colla voce di Goerne era sempre all’altezza, mai un punto in più o un punto in meno: l’energia bellica dell’inizio di An die Leier e i successivi molli arpeggi della lira che ha la necessità di cantare solo l’amore offrivano un contrasto di tocchi e di sentimenti che ci hanno affascinato. Der König in Thule, la ballata arcaicizzante che canta Margherita, la triste storia del re e della sua amata che, morendo, gli lascia la coppa da cui lui beve la vita che gli resta giorno dopo giorno, riempiendola di lacrime, ha raggiunto da parte di entrambi altissimi livelli intepretativi così come l’infrequente ascolto di Atys, che offre anche un raro postludio del pianoforte solo, è stato anch’esso uno dei momenti più emozionanti di tutto il recital. Ma uno dei punti di massima tensione, per i pianissimi e per l’atmosfera rarefatta in attesa di una fine che si intuiva ma che non si voleva giungesse, era l’ultimo Lied, Abschied, appunto, Addio. Qui cantante e pianista si sono reciprocamente superati, entrando l’uno nello strumento dell’altro, e, siamo convinti, con una reale partecipazione emotiva. Pubblico contento, inutilmente in attesa di un bis. Con Abschied si era detto tutto.