domenica 26 ottobre 2014

teatro Pergolesi Jesi Don Giovanni


JESI, TEATRO PERGOLESI 

DON GIOVANNI 
ossia Il dissoluto punito

Dramma giocoso in due atti, libretto di Lorenzo Da Ponte, musica di Wolfgang Amadeus Mozart

(5 ottobre 2014)


Due goliardi pervertiti alla saga della mutanda

di Giosetta Guerra


Per Graham Vick, regista del Don Giovanni al Teatro Pergolesi di Jesi, il sesso tout court prevale sul gioco erotico, lo sballo è più importante del ballo, la volgarità si sostituisce all’eleganza e la banalità al mistero, perché secondo lui oggi i giovani sono così. Si fa sesso in macchina, ci si droga alle feste, ci si traveste, le donne sono dei manichini e non portano le mutande. 

Un’offesa schiacciante per i giovani e per le donne. 

In questo Don Giovanni l’ambiente comune per il sesso è una Rang Rover nera, da lì escono Donna Anna con le mutande alle ginocchia e Don Giovanni coi pantaloni abbassati continuando a fare sesso per terra e contro l’auto, quella è il casinetto dove il Don porta Zerlina, lì passano gli invitati alle nozze di Zerlina e Masetto e lì, entrando dal bagagliaio, consumano i due giovani dopo essersi quasi spogliati in scena. 

E questa idea poteva essere simpatica.

La festa a casa di Don Giovanni è un party di droga e di sesso che finisce a bastonate, gli invitati si tuffano sulla polverina bianca, gettata a terra dal Don, a tempo di minuetto e di contradanza (?) con movenze moderne (coreografo Ron Howell), inneggiando alla libertà (ma quale libertà se sono dipendenti dalla droga?) e tutto si svolge in una rumorosa confusione che annulla la musica e le sue intenzioni. 

E questo è un’indecenza.








All’invito di Leporello “Venite pur avanti, vezzose mascherette” si presentano tre baldraccone coloratissime (Ottavio in minigonna è una bellissima donna che piace anche a Don Giovanni) che ci hanno fatto tanto ridere, ma proprio nel momento in cui la musica creava mistero. E questo è una contraddizione.


L’elemento ricorrente in tale produzione è un indumento femminile, le mutande. Don Giovanni con una calza sul viso fa annusare un paio di mutande bianche sporche di sangue al Commendatore che muore d’infarto cadendogli addosso, 
le donne con le mutande sulle ginocchia e le gambe all’aria son sempre pronte per l’uso, gli uomini coi pantaloni sbottonati le prendono in tutte le posizioni. 



La cena è un susseguirsi di trovate vomitevoli di coprofagia e di velata pedofilia, con mutande che vanno giù e su, giovani corpi in varie pose davanti alla macchina fotografica del Don. Giù le mutande anche per Elvira che arriva con kilt e camicia, Don Giovanni gliele toglie e… “Vivan le femmine”; quando il commendatore bussa alla porta, Leporello nasconde la testa tra le chiappe di una grande statua nuda e poi le schiaffeggia, come in un film porno, la statua si gira e tra le sue gambe compare il commendatore con in mano le mutande bianche sporche di sangue. 

E tutto questo è un’insopportabile volgarità.

Le mutande continuano a girare anche nel quintetto finale, Ottavio le passa ad Anna, Anna le butta a terra, poi tutti cominciano a spogliarsi……..ma ormai era tardi, potevano farlo prima, avremmo avuto gli occhi scintillanti piuttosto che lo stomaco in subbuglio.

Quasi sempre presenti i vigili urbani in divisa, che attestano la morte del Commendatore, ne disegnano la sagoma a terra e lo portano via, indagano sulla scomparsa di Don Giovanni,  tengono d’occhio Leporello e alla fine mettono le transenne.

Comunque nella prima parte fino alla festa il regista tiene un certo ritmo, anche se sesso e droga danno un piacere effimero che non resta nel ricordo, nella seconda parte invece tutto si appiattisce, il regista banalizza e quasi sorvola le scene più cariche di mistero: il cimitero, la cena, la fine di Don Giovanni; chi non conosceva la storia non ha certo capito che cosa stava succedendo e chi la conosceva aveva i nervi a fior di pelle

Il commendatore-statua seduto sul boccascena è piuttosto ridicolo, sarebbe più credibile se la voce venisse da dietro la tomba o da dietro il baldacchino blu, anche perché Leporello non guarda lui, ma verso la tomba quando lo invita (“O statua gentilissima”). 

Don Giovanni dopo la stretta mortale del commendatore scende dal palcoscenico e si siede in platea. Ma che punizione è? Il regista dice che stare tra la gente è un inferno. Allora tutti i viventi sono in punizione. E poi stare all’inferno da morti è forse meglio che stare tra la gente da vivi?

Tralascio l’analisi di tanti altri elementi e simboli, perché non sono stata al cinema, ma all’opera, e i registi devono imparare ad avere l’umiltà di porsi in secondo piano rispetto alla musica. Le luci di Giuseppe Di Iorio si adeguano alle situazioni cambiando colore, forma, direzione e intensità. Stuart Nunn propone anonime scene minimaliste lontane da quelle richieste e sipari sontuosi di raso arricciato orizzontalmente; i costumi sia casual che da cerimonia sono contemporanei (Leporello in tuta, Don Giovanni con completo bianco o jeans e maglietta, Ottavio con uno spezzato, Elvira in abito monacale, Anna con impermeabile, gonna, stivali e gambe scoperte, Masetto e Zerlina vestiti da sposi).

In tutto questo ambaradan di cattivo gusto, ogni tanto si apprezza anche la musica eseguita dall’Orchestra I Pomeriggi Musicali diretta piuttosto superficialmente dal venezuelano José Luis Gomez-Rios e si apprezzano le voci, anche se non perfette, dei giovani vincitori del Concorso AsLiCo 2014 e le magnifiche voci scure dei due protagonisti maschili: Leonardo Galeazzi (Leporello) e Dionisos Sourbis (Don Giovanni).

Leonardo Galeazzi è un professionista affermato, la sua arte scenica, la mimica facciale, la dizione chiara e l’ottima recitazione gli permettono di realizzare un Leporello divertente, ironico, scanzonato e sicuro di sé; dotato di voce maestosa, dal colore scuro molto bello e rotondità del suono, di notevole spessore e ampiezza e di grande agilità, il baritono canta benissimo, anche disteso,  ammorbidisce con insinuazione una voce robusta e sonora quando legge sul cellulare la lista delle amanti del padrone (“Madamina, il catalogo è questo) e si destreggia agevolmente nel canto sillabato.

Il greco Dionisos Sourbis è un bel Don Giovanni, giovane e scattante, che avrebbe bisogno di una regia più elegante, ha una bella gettata di voce, poderosa e di bellissimo colore, che necessita di un certo controllo: è sinuosa e morbida ai fini della conquista pur mantenendo un ironico distacco (“Là ci darem la mano”), è troppo urlata in “Fin ch’han del vino” cantata con irruenza, forse a causa della droga che si inietta nel braccio (orrenda trovata registica perché Don Giovanni è pur sempre un signore e la droga non aiuta il sesso, quindi caro regista sei proprio fuori), è poco ferma nella serenata “Deh, vieni alla finestra”. 

 Accento incisivo per Don Ottavio e Donna Anna fisicamente male assortiti: lui è piccolino e lei un diavolone alto, a volte conciata da travestito. Il soprano Ekaterina Gaidanskaja canta bene il racconto dello stupro (“Or sai che l’onore”), la voce c’è ed è per lo più ben usata con attacchi in pianissimo e acuti ben proiettati, ma il ruolo è pesante per lei che lo affronta come un’urlatrice con suoni acuti spesso sparati e tenuti, morbidezza nei medi e gravi vuoti.  Il tenore Matteo Mezzaro ha voce di bel colore e buon volume, ma poca fluidità nell’emissione (“Il mio tesoro intanto”), qualche ammorbidimento c’è ma predomina l’asprezza, ci vuole maggior dominio del fiato per dare più morbidezza al canto e per non tagliare gli acuti.

La voce possente, ampissima e di grande peso del basso rumeno Cristian Saitta è ottima per il ruolo del Commendatore, le dilaganti espansioni acute seguite da improvvisi ritorni al grave, sostenute da un’orchestra inquieta e robusta, durante la cena, creano un clima devastante di terrore.

Il soprano Mariateresa Leva, inizialmente vestita da castissima suora, scende dall’alto su una specie di altalena e finisce dentro un  montacarichi pieno di pupe, alcune delle quali si animano e scendono.  Si cala  nel personaggio di Donna Elvira con un’ intensa interpretazione,  cerca di ammorbidire e di fare le dinamiche richieste (“Non ti fidar o misera”),  ma non c’è proprio come Elvira, la voce è corta, arriva male al registro grave anche se spinta col mento basso (“Ah fuggi il traditor”) e viene gonfiata negli acuti.

Masetto in abito grigio lucido e scarpe bianche in piedi sul tetto dell’auto e Zerlina con abito bianco corto da sposa che lancia il bouquet in platea fanno parte del gruppo colorato degl’invitati. Il bass-bariton Davide Giangregorio ha voce ampia e sonora, canta bene esternando ironia mista a rabbia. Alessandra Contaldo è un soprano brillante con voce piuttosto corta e con qualche suonetto fisso, ma dalla tinta mozartiana, ha modo aggraziato di cantare e usa  bene la voce nel canto melodioso (“Vedrai carino”). Il Coro del Circuito Lirico Lombardo, diretto dal Dario Grandini, svolge la sua azione anche in platea.

Coproduzione di otto teatri del Circuito Lombardo. 

Personaggi e interpreti

Don Giovanni

Dionisios Sourbis
Don Ottavio
Matteo Mezzaro
Commendatore
Cristian Saitta
Donna Elvira
Mariateresa Leva
Donna Anna
Ekaterina Gaidanskaja
Leporello
Leonardo Galeazzi
Masetto
Davide Giangregorio
Zerlina
Alessandra Contaldo


Orchestra I Pomeriggi Musicali
Direttore
José Luis Gomez-Rios
Coro del Circuito Lirico Lombardo
Maestro del Coro
Dario Grandini
Regia
Graham Vick
Scene e costumi
Stuart Nunn 
Disegno luci
Giuseppe Di Iori

Foto Binci

mercoledì 1 ottobre 2014

rof 2014 Aureliano in Palmira



Pesaro - Teatro Rossini 

AURELIANO IN PALMIRA


Dramma serio per musica che celebra la clemenza dell’imperatore romano Aureliano, testo di Felice Romani, musica di Gioachino Rossini.

Edizione critica Fondazione Rossini/Casa Ricordi, a cura di Will Crutchfield.

(12 Agosto 2014, prima)

Recensione di 
Giosetta Guerra

Il labirinto 

della vita

Il piacere dell’ascolto inizia alle prime battute della Sinfonia, che è la stessa di Elisabetta Regina d’Inghilterra e de Il Barbiere di Siviglia, del quale troviamo altre memorie e precisamente: la musica della preghiera corale d’apertura “Sposa del grande Osiride” poi usata per la cavatina del Conte d’Almaviva “Ecco ridente in cielo”, quella della cabaletta marziale di Arsace “Non lasciarmi in tal momento” (Atto II) ripresa per la cavatina di Rosina “Io sono docile, son rispettosa”. Questi autoimprestiti da un’opera poco fortunata ad un’altra erano possibili grazie all’astrattezza della musica rossiniana (ben faceva il compositore a non buttare al macero tanta bella musica) e andavano ad inserirsi in un’architettura già ricca. Aureliano in Palmira ha tanta bella musica di suo: ampie melodie, accurate pagine corali, nuovi colori nella strumentazione, scrittura vocale fortemente caratterizzante.  L’edizione critica, curata per la Fondazione Rossini da Will Crutchfield, ha reinserito molti recitativi che allungano l’opera di due atti a circa tre ore e mezzo.
Ed è stato proprio Crutchfield a dirigere l’Orchestra Sinfonica Rossini e il coro del Comunale di Bologna, preparato da Andrea Faidutti, sostenendo gli abbandoni sentimentali dei protagonisti, rispettando il clima preromantico delle ricche pagine corali, dando spazio alle voci solistiche degli strumenti, il corno in primis, che Rossini tanto amava e anch’io.
 
Ma il dramma è concentrato sui tre protagonisti, cui è riservata una scrittura vocale acrobatica; tenore, soprano e mezzosoprano devono mettere doti belcantistiche eccezionali al servizio del canto di coloratura. Michael Spyres e Jessica Pratt sono stati perfetti, Lena Belkina sarà perfetta quando avrà acquisito maggior spessore vocale.
 

Michael Spyres (scenicamente un autorevole e amorevole Aureliano) s’impone per voce solare di bellissimo timbro, sicura e possente in ogni registro anche nelle tessiture estreme, estesissima per passare da acuti luminosi (perfino un attacco in acuto lungo e tenuto nella cavatina "Cara patria", accompagnata dal corno) a robusti affondi gravi seguiti da improvvisi sovracuti, duttilissima per sostenere la morbidezza del canto sensuale e amoroso e per lanciarsi in pirotecniche agilità di forza anche in gara con la Pratt e nelle fitte ornamentazioni dei pezzi di coloratura, la dizione è chiarissima, l’arte scenica magnifica. Ha la spavalderia e la potenza vocale di Rockwell Blake, in più Spyres è un baritenore.

 

Sulla stessa linea si pone Jessica Pratt (una biondissima Zenobia), i bellissimi filati anche rinforzati, la perfetta messa di voce, gli acuti robusti, i sovracuti finali tenuti, i trilli, i gorgheggi anche in sovracuto, le agilità di forza, i virtuosismi nella fitta coloratura, la pulizia del suono, la melodiosità della linea di canto, il cesello della frase, la dizione chiara fanno di lei una belcantista d’alto rango.
Nel duetto con Arsace in prigione (“Non ti lascio”, I atto) sopra un magnifico disegno orchestrale di bellissimo stile la Pratt spara uno strabiliante possente acuto;  
nel II atto, da austera regina in piedi su un cocchio, attacca il dolcissimo duetto con Aureliano (“Se libertà t’è cara”) con un acuto lungo rinforzato e sfoggia sovracuti stellari. Scenicamente è una vera regina.
 

Lena Belkina (en travesti negli abiti del guerriero Arsace, scritto per il castrato Velluti) è un mezzosoprano dal bel colore ambrato, ha voce estesa e potente in zona acuta, canta bene anche sdraiata ed interpreta con passione. Sostiene con buona tecnica i lunghi fiati e le ampie arcate nel duetto con Aureliano che è agilissimo e acutissimo, nella prigione ha qualche suono intubato nei gravi, ma il colore è bello e pastoso, buoni gli armonici. Brava nell’aria Non lasciarmi in tal momentocon difficili scale discendenti e successive impennate acute. Col tempo lo spessore vocale aumenterà.
 
Raffaella Lupinacci (Publia con abito di foggia romana) è un buon mezzosoprano, che canta bene l’aria di sorbetto piuttosto impegnativa “Non mi lagno, che il mio bene”, a lei riservata.
Dimitri Pkhaladze (Gran Sacerdote) ha voce scura di bel colore ma un po’ impastata, pesante e poco estesa con conseguente difficoltà in zona acuta.
 
Il basso Sergio Vitale ha intepretato Licinio, il tenore chiaro acuto Dempsey Rivera Oraspe e Raffaele Costantini un pastore.
La particolarità di questa edizione è l’allestimento che a prima vista sembra scialbo, ma in itinere si è rivelato intelligente ed originale. Il palcoscenico occupato da un labirinto di teli trasparenti sapeva di minimalismo, ma simboleggiava il labirinto della vita e dei sentimenti, che, seppur privati, hanno sempre una certa trasparenza e visibilità. I teli avevano una loro mobilità e andavano a formare passaggi, corridoi,  tende da campo,  
prigione e ambienti stilizzati che ospitavano gli amanti, il coro delle vergini, dei sacerdoti e dei guerrieri, perfino un gregge di caprette vere che giravano e brucavano l’erba in palcoscenico col loro pastore. Quello che non ho capito, ma mi è piaciuto, è l’ubicazione del fortepiano suonato da Lucy Tucker Yates e della viola da gamba suonata da David Ethève in un anfratto del labirinto.

 
La regia era di Mario Martone, le scene di Sergio Tramonti, i costumi bellissimi e coloratissimi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari.


 

prima di Aureliano nel foyer del Teatro Rossini: 

Gianfranco Mariotti, Giosetta Guerra, Alberto Zedda

foto Amati Bacciardi