lunedì 26 ottobre 2015

Jesi Teatro Pergolesi, NABUCCO

JESI Teatro Pergolesi

NABUCCO 

CON UN CAST ALL'ALTEZZA DEI RUOLI
(Stefano Gottin, 16/10/2015)

La 48^ stagione lirica di tradizione del teatro G.B. Pergolesi di Jesi si è aperta con un titolo che più tradizionale non potrebbe essere, Nabucco (o meglio Nabucodonosor), rappresentato al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842 alla presenza nientemeno che di Gaetano Donizetti.
Terza opera di Giuseppe Verdi, nonché la prima che ne decretò il successo, Nabucco costituisce anche lo spartiacque nell’esistenza del genio di Busseto dopo la tragica scomparsa, poco tempo prima, della prima moglie Margherita Barezzi e dei due figlioletti in tenera età. Durante quella memorabile produzione scaligera, replicata in quella stagione per oltre cinquanta recite, Verdi gettava le basi della propria vertiginosa carriera e di un’imminente nuova vita sentimentale con la sua prima Abigaille, Giuseppina Strepponi, soprano di prima sfera e sagace protettrice del giovane compositore, col quale convolerà a nozze oltre dieci anni dopo, ponendo fine a una convivenza discreta ma chiacchierata dai benpensanti “da paese”.
Nabucco è una sorta di oratorio in forma scenica che, se non altro in termini di contesto e di clima narrativo, ha per antesignani Semiramide (1823) e Mosè in Egitto (1818) di Gioachino Rossini, e getta le basi di un’opera come Aida, con la quale condivide l’effetto magniloquente e trascinante di talune scene corali, il tratto esotico, ma anche la problematica e aspra introspezione di taluni personaggi e una certa inquietudine intimistica, talvolta trascurate dall’immaginario collettivo.
Nabucco è un’opera “a blocchi”, costretta nella tradizionale “forma chiusa”, ma caratterizzata da una semplice, sorgiva, ma anche calcolata ispirazione, quella che sa fare i conti col gusto del pubblico, sicché il titolo non è mai uscito dal repertorio. È un’opera la cui scrittura vocale non sempre è in linea con la fisiologia umana (vedasi la tremenda parte di Abigaille), ma che costantemente denota un sicuro istinto teatrale senza essere priva di momenti musicali di alta scuola (per tutti il preludio per violoncello solo del “Vieni, o Levita” intonato da Zaccaria). Al contempo, il ricorrente tono militaresco evoca l’arguta e fulminante osservazione di Rossini che definiva Verdi “musicista con l’elmo in testa”, sintesi senz’altro riduttiva ma non impropria per il Verdi degli “anni di galera” (1839-1849), quelli di più intenso lavoro per “farsi la piazza” e per mettere fieno in cascina e…. soldi in banca. Nabucco è anche la prima opera in cui i caratteri dei personaggi vengono sbalzati e vivificati: vedasi, per tutti, il ruolo del titolo, primo di una lunga serie di personaggi fondamentali per il teatro lirico assegnati alla corda baritonale, da Verdi preferita.
In questo allestimento jesino la regia, senza astruserie ma anche senza particolari spunti, era di Stefano Monti, autore anche delle scene supportate da elementi scenici dello scultore Vincenzo Balena. I costumi, tradizionali, erano di Massimo Carlotto e le luci di Nevio Cavina. Insomma, uno spettacolo non memorabile ma funzionale, che si lasciava guardare, anche se lo scontro tra civiltà e religioni, sempre attuale (purtroppo) avrebbe consentito soluzioni registiche meno scontate.
Non soddisfacente era la direzione del maestro Aldo Sisillo che, alla guida della non ineccepibile Orchestra dell’Opera Italiana, ha offerto una performance slentata e sfilacciata nei cantabili, troppo spesso fragorosa e poco rifinita: forse l’unica prova non è stata sufficiente per trovare i giusti rapporti in una sala molto acustica come quella del Pergolesi, che ha una buca alta e molto aperta.








Ottimo e coinvolgente, invece, il Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini" sotto la sapiente guida del maestro Carlo Morganti (siamo comunque grati al pubblico che, con insospettabile maturità e visto che non lo ordinava il dottore…, non ha insistito a che fosse bissato il “Va’ pensiero”).


Il vero punto di forza della produzione stava comunque nel cast vocale, e con i tempi che corrono non è poco, con Carlos Almaguer (Nabucodonosor), baritono di notevole e sicura presenza vocale, ben impostato e sempre puntuale negli interventi in forza di una personalità di primo piano.



Ottima era altresì la linea di canto del basso Ramaz Chikviladze (Zaccaria), dotato di una voce estesa, omogenea e ben timbrata, di un’impostazione “all’italiana” e di una dizione sicura, esente da quelle inflessioni slave che col tempo degenerano nel “muggito”.




Bene in vista era anche il tenore Leonardo Gramegna (Ismaele), provvisto di una voce franca, squillante, oserei dire impavida, che affrontava senza complicazioni e difficoltà le asperità del ruolo, non lungo ma arduo.


















Il soprano Maria Billeri (Abigaille) si confrontava con un ruolo impossibile, tanto da segnare la fine della carriera della sopra menzionata Giuseppina Strepponi (forse Verdi lo scrisse così perché preferiva immaginare la futura moglie a casa piuttosto che in palcoscenico…). La Billeri se l’è cavata, talvolta anche bene, ma se ne coglieva lo sforzo e gli artifici per venire a capo di una parte difficilissima, massacrante, aspra e oltretutto lunga, caratterizzata da improvvise escursioni dall’acuto estremo al grave, con insistite frequentazioni nella zona di passaggio dal registro medium a quello acuto, ma anche da spunti lirici non occasionali e propri di una vocalità più raccolta e cantabile. Insomma un vero rompicapo che Maria Callas ha affrontato in teatro solo una decina di volte, pur essendo munita di tutte, e sottolineo tutte, le credenziali necessarie a fronteggiare non occasionalmente il ruolo ai massimi livelli. Comunque, grazie a Maria Billeri per essere stata della partita con forte partecipazione e pertinenza d’accento ma, se fossi in lei, sarei… meno generoso e penserei a ruoli che possano meglio preservare il suo patrimonio vocale.

Infine, di classe sicura, bella voce ed elegante fraseggio il mezzosoprano piemontese Elisa Barbero, che avevo già apprezzato qualche anno fa quando ero in giuria nel Concorso Beniamino Gigli a Roma, in cui la giovane artista si produsse in un’eccellente Charlotte del Werther di Massenet.

Efficienti, infine, Il Gran Sacerdote di Belo del basso Paolo Battaglia e l’Abdallo del tenore  Roberto Carli, mentre Anna, sorella di Zaccaria, era il soprano Alice Molinari che, pur in un piccolo ruolo, peraltro non facile perché deve incastrarsi bene nei pezzi d’assieme, è riuscita a non passare inosservata.
Ovviamente teatro al completo e vivo successo: Nabucco è sempre Nabucco e…..Va’ pensiero, pure!


foto Binci











mercoledì 21 ottobre 2015

Tiberini d'oro 2015


Teatro Rossini di Pesaro


domenica 18 ottobre 2015 ore 21


Consegnato 

il Premio Tiberini d'oro 

al soprano Sumi Jo 

e al tenore Vittorio Grigolo 

con le seguenti motivazioni



AN, Teatro Muse Bohème 2015

ANCONA, TEATRO DELLE MUSE


UNA FRESCA E GIOVANE BOHÈME 

PER UNA BUONA APERTURA DI STAGIONE


 (9 ottobre 2015)


Servizio di Stefano Gottin

La Bohème, di Giacomo Puccini: opera per me familiare nel vero senso del termine poiché collegata al grato e affettuoso ricordo della mia nonna materna, Fanny, che nacque nello stesso anno, il 1896, in cui l’opera vide la luce il 1° febbraio al Teatro Regio di Torino sotto la direzione del giovane Arturo Toscanini.
La Bohème, si diceva: col trascorrere del tempo sempre più ne rilevo la modernità teatrale e musicale, l’attualità dei sentimenti e delle vicende che la animano. Raramente, infatti, un titolo lirico presenta una tale continuità d’ispirazione e una simile “perfezione” d’impianto: mirabile nella sinteticità degli episodi e per la compattezza dell’insieme, scattante ed equilibrata nell’incedere narrativo dei fatti (a conferma che Verdi era ben presente a Puccini); sul piano musicale, un’opera nel solco della migliore tradizione italiana, ma moderna, aperta alle novità della musica europea di quell’epoca e dell’avvenire; opera soprattutto in grado di “incontrare” il gusto del pubblico di ogni tempo e perciò anche di quello futuro, posto che essa è un crogiolo di sentimenti, valori e pulsioni eterni.
La Bohème, opera di giovani e per giovani perché sa far riemergere da ciascuno di noi, indipendentemente dall’età, il profumo della nostra giovinezza e il senso di quel precipizio interiore di quando, ancor giovani, la vita ci mette a confronto con la morte di persone care, con l’irreparabilità della loro perdita e con la solitudine che ne deriva, tutti aspetti esistenziali considerati fino ad allora mere astrazioni o, tutt’al più, problemi non nostri, quasi che fossimo investiti di un’aura di immunità inossidabile, che in un istante è invece andata in frantumi.
Così è per i giovani personaggi del titolo pucciniano, dei quali il Teatro delle Muse di Ancona ha voluto ripercorrere le vicende con uno spettacolo in economia, fresco e ed essenziale, ideato dal  regista Nicola Berloffa, (scene di Fabio Cherstich e costumi di Valeria Bettella), che ha avuto l’intelligenza di non complicarsi/ci la vita con soluzioni pseudo-intellettuali, ma di lasciar parlare il mirabile libretto di Giacosa e Illica con le relative didascalie (anche in questo si vede che La Bohème è un capolavoro, poiché musica e libretto dicono già tutto senza bisogno di “mediazioni culturali”).
Il maestro Gabriele Bonolis, a capo dell’efficiente FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana, dirigeva con appropriatezza ma anche in modo poco personale la partitura pucciniana, in verità molto complessa e preoccupante banco di prova per qualunque direttore che non abbia avuto dimestichezza con la gavetta del teatro lirico e provenga invece dalla musica sinfonica (la quale, è bene ricordarlo, presenta difficoltà differenti ma decisamente minori rispetto allo spettacolo lirico).
Note positive per la compagnia di canto che si è distinta per capacità attoriale e naturale tenuta del palcoscenico: ragguardevole, anche in questo senso, il contributo del regista Nicola Berloffa.

Su tutti ricorderei il soprano Grazia Doronzio (Mimì), incisiva nella dizione e nella messa a fuoco del timbro, sicura nell’intonazione, propensa a curare le dinamiche e nel differenziare le intensità di suono, seppure con una tendenza appena percepita a stringere il suono in zona acuta. Davvero pregevoli, nell’interpretazione del giovane soprano, ci sono sembrati i due ultimi quadri dell’opera.
Bravo anche il tenore Jenish Ysmanov (Rodolfo), dotato di appropriato physique du rôle e di voce ben impostata e squillante in zona acuta, ma ancora un poco fané nei centri e nella dizione.

Efficace ed incisiva la Musetta interpretata dal soprano Lavinia Bini, brillante, civettuola, seduttiva, ma accorata nel IV quadro. Il baritono Francesco Vultaggio dava voce sicura e giusta quadratura emotiva al sanguigno personaggio di Marcello, mentre Schaunard era affidato all’altro baritono della compagnia, Italo Proferisce, ancora un poco acerbo per questo difficile ruolo. Il ruvido e sensibile Colline era il basso Dario Russo, vocalmente ben attrezzato e puntuale nella “Zimarra”. Di accertato professionismo il baritono Marco Camastra nel doppio ruolo da caratterista di Alcindoro e Benoit. Come si suol dire, bene gli altri: il Parpignol di Alessandro Pucci, Il doganiere di Gianni Paci, il Sergente dei Doganieri di Roberto Gattei. Una finale nota di apprezzamento per il Coro Lirico “V. Bellini” di Ancona, per il Coro di Voci Bianche “ArteMusica” con Maestro del Coro Angela De Pace e per la Banda di Palcoscenico Orchestra Fiati di Ancona con direttore Mirco Barani.
Il teatro, nonostante la straordinaria popolarità del titolo, non ha fatto il pieno (effetto crisi?) ma il successo è stato via via crescente, con vive acclamazioni al soprano Grazia Doronzio e agli altri artisti in misura coerente con i rispettivi valori in campo.
Esordio azzeccato per le Muse, come comprovava la commozione, nel finale, da parte del pubblico e di chi scrive (che, tra l’altro, pucciniano non è …).