venerdì 18 ottobre 2013

Teatro Tiberini San Lorenzo in Campo Concerto finale master class Luciana Serra




San Lorenzo in Campo (PU) - Teatro Tiberini

 

Chiusura in bellezza del master di Luciana Serra

incontro-studio di tecnica e interpretazione

di Giosetta Guerra

Nei giorni 11, 12, 13 ottobre 2013 l’Associazione Musicale Mario Tiberini ha ospitato al Teatro Tiberini di San Lorenzo in Campo, gentilmente concesso dal Comune, un master di canto lirico con il soprano Luciana Serra, docente di canto all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, che tiene corsi di perfezionamento in varie parti d’Europa.
Se si pensa che dopo San Lorenzo in Campo la Serra terrà un master alla Sorbonne di Parigi, si capisce quale privilegio ha avuto questo piccolo paese dell’entroterra pesarese ad accogliere un evento così importante, che va ad aggiungersi all’ormai noto Premio Tiberini che si organizza qui da ben ventidue anni.
Il nome di questo soprano così famoso, che mette la sua esperienza e le sue competenze al servizio di cantanti che intendono perfezionare la loro tecnica, ha richiamato giovani cantanti lirici da ogni parte del mondo, che hanno soggiornato in loco per tre giorni ed hanno usufruito degli insegnamenti di questa fantastica maestra, la quale ha saputo con garbo e con determinazione individuare e correggere i difetti di ognuno di loro. Dopo soli tre giorni di lezioni, i giovani cantanti non sembravano più gli stessi e, al concerto finale aperto al pubblico, hanno dimostrato di aver migliorato la loro tecnica d’emissione e d’interpretazione. Alla lezione concerto che si è tenuta domenica 13 ottobre alle ore 17 si sono esibiti gli allievi migliori, accompagnati al pianoforte da Mirca Rosciani: Denver Smith baritono sudafricano con l’aria Come Paride vezzoso da L’elisir d’amore di Donizetti,  
 

Mara Paci soprano di Ferrara con Un bel dì vedremo dalla Butterfly di Puccini,  


 

Martina Meacci soprano di Firenze con Vittoria ..Vittoria di Carissimi,  

 




Makiko Sugano soprano giapponese con la cantata 51 di J. S. Bach,  


 
 Stefania Vietri soprano di Potenza con Bel raggio lusinghier da Semiramide di Rossini,  

Angelo Bonazzoli sopranista di Cattolica con un brano dal Giustino di Vivaldi, Vedrò con mio diletto,
Melania Di Stefano soprano palermitano con Son pochi fiori da L’amico Fritz di Mascagni. 

Agli allievi è stato consegnato un attestato di partecipazione e a tutti gli artisti una copia del libro “Mario Tiberini, tenore” di Giosetta Guerra.
Ho parlato di lezione concerto perché la maestra ha diretto col gesto e con lo sguardo i giovani cantanti e li ha corretti al bisogno, facendone partecipe il pubblico, che ha assistito ad un evento nuovo e molto interessante ed ha anche rivolto alla maestra alcune domande. Ma non è 
finita qui.

Luciana Serra, che è stata insignita del Premio Tiberini alla carriera come icona del belcanto, ha fatto ascoltare la sua splendida voce, fresca come un tempo, cantando alcune arie di Rossini, La danza e in duetto con Stefania Vietri La regata, e di Mozart, Là ci darem la mano, in duetto col baritono Nicola Alaimo, ospite della serata e Premio Tiberini d’oro 2011, il quale ci ha deliziato con la cavatina di Figaro da Il Barbiere di Siviglia. Il consenso è stato unanime, il pubblico si è divertito ed ha apprezzato il clima colloquiale e familiare ma anche l’alto livello di questo salotto musicale. Il sindaco ha ringraziato gli artisti e gli organizzatori, promettendo il suo appoggio per future master class, che trovano in questo piccolo bellissimo teatro l’ambiente ideale. Poi tutti gli spettatori sono stati invitati al piccolo buffet a base di farro offerto dalla Pro loco, mentre per gli artisti è stata preparata dal cuoco Silvano Santucci una cena a base di prodotti locali al Ristorante Da Giuliano. Tutti hanno potuto apprezzare i vini Terracruda dell’azienda vinicola di Fratterosa. Prossimo appuntamento dell’Associazione Musicale il 23 novembre alle 20.30 per la serata di gala del Premio Lirico Internazionale Mario Tiberini, che sarà conferito al tenore Gianluca Pasolini e al basso Andrea Concetti.




giovedì 17 ottobre 2013

Jesi, Teatro Pergolesi: L'Arlesiana di Cilea



       Jesi, Teatro Pergolesi

 


L’Arlesiana di Francesco Cilea


Libretto di Leopoldo Marenco dal dramma L’Arlesienne di Alphonse Daudet

Nuovo allestimento in coproduzione con Wexford Festival Opera, dove Rosetta Cucchi ha lavorato per anni.

(29 settembre 2013)

Giosetta Guerra



La musica, cupa e lenta nell’Ouverture, è un alternarsi di suoni laceranti, linee morbide, momenti solari. L’Orchestra Filarmonica Marchigiana, diretta da Francesco Cilluffo, è ricca di colori e di ricami strumentali, ma anche di sonorità forti che a volte coprono le voci, dovrebbe calibrare il volume. Nell’opera dalla linea narrativa e non melodica si respira un clima mascagnano, c’è violenza in orchestra e nelle voci tirate al massimo fino al grido e spesso in gara tra di loro, ma si nota anche la raffinatezza della preparazione musicale di Cilea.
Nelle effusioni d’amore tra Federico e Vivetta c’è una tensione continua nelle voci, nei dialoghi tra Rosa e Vivetta c’è violenza sia nel canto che nel gesto.

 
Annunziata Vestri, un mezzosoprano dalla voce corposa ed estesa, robusta, resistente e di bel colore in tutta la gamma, è in grado di esprimere tutta la drammaticità di Rosa Mamai, un personaggio che si avvicina nel carattere e nell’aspetto austero a Mamma Lucia di Cavalleria Rusticana. Inginocchiata accanto ad una carrozzina bianca, canta “Esser madre è un inferno”, un grande monologo che non ha una linea melodica orecchiabile, con voce screziata, magnifica in tutti i registri, un accento drammatico intensissimo, un colore denso e penetrante; ottimi i cambi di registro. Bravissima.
Anche il tenore spinto Dmitry Golovnin (Federico) ha una bella gettata di voce, piuttosto chiara e a volte un po’ aspra, ma con fiati lunghissimi sempre in maschera, accento  incisivo, suoni sostenuti e canto sul fiato. Nella solita storia del pastore introdotta da un’orchestra sommessa, l’attacco de “Il povero ragazzo” è morbido; il tenore, pur cantando disteso sopra un tavolo, tiene un’intensità d’accento fin quasi al singhiozzo, un’emissione morbida, suoni lunghi e puliti (“Anch’io vorrei”). Il canto è più vigoroso che patetico, la voce robusta è ben gestita nelle dinamiche ma senza languore.



Mariangela Sicilia (Vivetta) è un soprano squillante di bel timbro, che fa buon uso del fiato, sostenendo il suono, usando le mezze voci e la messa di voce, producendo bei filati, la voce sa essere sia armoniosa che tagliente, il canto diventa lacerante quando Federico la respinge dicendole che non l’amerà mai. Canta benissimo. 

Stefano Antonucci presta una bella voce scura di baritono al vecchio pastore  Baldassarre, il sostegno del fiato nelle arcate melodiche e la naturalezza delle espansioni acute mettono in evidenza l’ampiezza del mezzo vocale e la buona tecnica del cantante.

Metifio guardiano di cavalli  è Valeriu Caradja, baritono con voce rotonda ampissima, ma spesso coperta dall’orchestra; Marco fratello di Rosa è Cristian Saitta, basso corposo e roboante; l’Innocente è Riccardo Angelo Strano, controtenore acuto con vocina aggraziata.

 

 












Il Coro Lirico Marchigiano V. Bellini, preparato dal Maestro Carlo Morganti, è sempre fuori scena, nel terzo atto le femmine con lunghi capelli rossi ricci, vestite di grigio chiaro, passeggiano e cantano con morbidezza.
L’austerità si manifesta anche nei costumi di Claudia Pernigotti: Rosa Mamai porta uno scialle nero su abito grigio, capelli tirati raccolti sulla nuca, Vivetta indossa redingote e baschetto grigi, Metifio è tutto nero, Federico in bianco e nero.
Le luci, curate da Martin McLachlan, sono orientate sui personaggi e la scena è lasciata in penombra. Sì, perché la regia è puntata sui personaggi che vivono una realtà estranea.
La regista Rosetta Cucchi legge l’opera sotto la luce della psicanalisi, che cura le menti alienate scavando nella loro interiorità, esamina la realtà col filtro del passato. E qui di menti alienate ce ne sono: in primis l’Innocente, figlio ritardato di Rosa e fratello minore di Federico, poi Federico stesso ossessionato dal ricordo di una ragazza conosciuta ad Arles e tormentato dall’impossibilità di sposarla a causa della di lei cattiva fama, anche la ritrosia di Vivetta è piuttosto patologica, come la volontà di Metifio di rapire l’Arlesiana. I più sani sono il pastore Baldassarre che con la sua amorevolezza riesce a recuperare un barlume d’intelligenza nell’Innocente, lo zio Marco che asseconda il desiderio di felicità di Federico e Rosa Mamai che, provata dalla vita, tenta di dare buoni consigli al figlio Federico, ma che alla fine cade anche lei nella disperazione.
 

All’inizio di ogni atto la regista fa apparire un piccolo antro scuro che conduce alla realtà o al sogno o al passato o al luogo dei desideri, posti dietro un velatino trasparente, presenta l’Innocente come un cane frustato che si nasconde sotto il tavolo, sottolinea il progressivo deterioramento mentale di Federico, che nella terza parte con aria straniata e impedito nella deambulazione si presenta con una
 

valigetta e accetta inerme le cure della madre, mentre il suo doppio compare in alto dentro una cella di manicomio, o forse è proprio lui quello in alto e il suo doppio è quello in basso, seduto senza forze. Boh! La regista ci lascia volutamente nell’enigma. Anche gli altri personaggi si muovono in base al loro carattere: pacato il pastore, irruente Metifio, possessiva Rosa Mamai, riservata Vivetta.
Sul davanti si svolgono le azioni quotidiane tra pochi arredi e con le scene suggestive di Sarah Bacon.
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 Foto Binci © Teatro Pergolesi di Jesi














sabato 5 ottobre 2013

Bergamo - Maria De Rudenz



Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti 2013

Teatro Donizetti 

MARIA DE RUDENZ 

Dramma tragico in tre parti, libretto di Salvadore Cammarano, musica di Gaetano Donizetti

(20 settembre 2013, prima)
Di Giosetta Guerra

  
 
Maria de Rudenz è l’opera della follia, l’amore non è fonte di felicità, ma latore di gelosia, furore e vendetta, i protagonisti sono al di fuori di ogni schema naturale, basti pensare che Maria ha lo strano privilegio di morire tre volte, ritornando in vita le prime due per completare la sua vendetta, sentimento dominante della sua vita, pur essendo monaca, che la porta ad essere assassina e suicida.



Cammarano aveva tratto l’argomento dal terrificante dramma francese “La nonne sanglante ” di Anicet Bourgeois e Julien De Mallian, ma non lo aveva edulcorato abbastanza, infatti quel romanticismo nero non era piaciuto ai suoi contemporanei e la prima dell'opera alla Fenice di Venezia il 30 gennaio 1838 fu un vero fiasco, anche se la musica di Donizetti era curata in ogni dettaglio.
Il compositore, nonostante una certa riluttanza verso tale romanticismo esagerato e  febbrile, trovò nelle convulsioni dell’amore e della gelosia e nel furore della vendetta lo spunto per dare via libera alla sua vena creativa, sperimentò soluzioni melodiche inusuali per descrivere le lacerazioni interiori dei personaggi, caricò di sussulti la tensione di un canto estremo.
Forse è proprio questo clima allucinato a guidare la lettura del regista Francesco Bellotto, che sottolinea l’alienazione mentale dei personaggi, lo stesso tenore che si esibisce seduto su una sedia a rotelle per un reale infortunio, contribuisce ad accentuare le stranezze di questa gabbia di matti.

Per la prima volta Maria de Rudenz entra nel cartellone del Teatro Donizetti di Bergamo e viene ambientata in un rigido luogo con un groviglio di scale e impalcature di ferro fisse di fronte ad un modulo architettonico rimovibile, luogo che può funzionare sia da convento che da manicomio. A volte il modulo viene spostato o viene sollevato per lasciar comparire i luoghi e i personaggi della memoria, come la laguna di Venezia dove Corrado ha trascorso giorni felici con Maria o lo spettro di Maria creduta morta.




In apertura di scena suore nere e bianche si muovono lente su e giù per le scale cantando “Laude all’eterno amor primiero” al suono dell’organo, mentre in basso un malato giace su una lettiga e riceve le cure di una suora e di un infermiere che arriva con un carrello e materiale ospedaliero. Il malato scalzo e con lo sguardo assente, vestito di bianco come i pazienti di un manicomio, è Corrado, forse rimasto sconvolto da ciò che aveva combinato nell’antefatto dell’opera (Corrado era fuggito in Italia con l'amata Maria, negatagli in sposa dal padre di lei, poi, temendola infedele, l’abbandonò nelle catacombe romane), e in preda a costanti visioni di Maria da sola o col presunto amante, materializzate in figure in controluce, proiezioni o apparizioni lampo. L’opera è di difficile comprensione, ricca di rimandi a fatti accaduti, fortunatamente la regia pulita e non cervellotica, anche se incentrata sulla follia dei personaggi, di Francesco Bellotto ci fa comprendere il travaglio interiore dei protagonisti che si esprimono con una gestualità marcata  e una vocalità tutta forza e sussulti. Le scene chiare e luminose e i bellissimi costumi bianchi o neri di Angelo Sala contribuiscono
 
  
 a restituire l’immagine di un’esistenza senza colore, di rosso c’è solo il sangue, le eteree proiezioni e le luci spettrali di Claudio Schmid acuiscono il contrasto tra il chiaro e lo scuro.

  

Vocalmente i protagonisti sono chiamati ad un canto estremo, che i cantanti sostengono con sicurezza fino alla fine. 


 

Dario Solari (Corrado Waldorf) ha voce robusta di baritono, suoni pieni e sonori, con belle arcate nel raccontar la storia al fratello Enrico e un bel fraseggio nei cantabili larghi al pensiero della sua nuova sposa Matilde, di cui è innamorato anche Enrico. Intensa l’interpretazione.
Enrico è appannaggio di Ivan Magrì, un tenore dalla vocalità di bel timbro, spinta e sicura anche nelle proiezioni acute e sovracute. L’accento incisivo e i suoni sostenuti non gli impediscono di usare il canto a mezza voce (“Talor nel mio delirio ”), la dizione è chiara.
Rambaldo, familiare del conte, trova Maria piangente in un angolo del castello di Rudenz (quindi non è morta nella catacomba) e le spiega che il diniego del conte alle sue nozze con Corrado era dovuto al fatto che Corrado era figlio segreto di un assassino, giustiziato per i suoi crimini. Gli presta una bella voce di basso, morbida e rotonda, con bei suoni gravi Gabriele Sagona.


 

Il canto di Maria è quasi sempre di forza, ma Maria Billeri sa unire potenza e morbidezza, acuti aggressivi e mezze voci carezzevoli, piegando una voce lanciata di soprano lirico spinto alle esigenze di un canto melodioso. “Sì, del chiostro penitente ” è una bella prova di belcanto con trilli, variazioni, slanci acuti e sovracuti, scale discendenti, suoni densi e pastosi. “Il tuo core a me togliesti ” è un brano infuocato per la furia di Maria che canta a scatti scale discendenti sopra un’orchestra prepotente, il coro e le altre voci.
La supplica a Corrado di tornare con lei è una pagina di alta poesia e lei la rende con tenerissima linea di canto, poi diventa una furia spietata. Quello di Maria è un ruolo terribile, che Maria Billeri sostiene con rigore vocale e proprietà interpretativa fino alla fine.
Gilda Fiume è un soprano corretto nel piccolo ruolo di Matilde di Wolf e Francesco Cortinovis è il cancelliere di Rudenz.
L’ Orchestra del Bergamo Musica Festival, sotto la guida sensibile di Sebastiano Rolli, restituisce la ricchezza dei colori e delle emozioni di questa bella partitura.

 
Il coro, distribuito in modo artistico, è stato ben preparato da Fabio Tartari.