mercoledì 29 gennaio 2014

BO Teatro Comunale PARSIFAL



Durata 
Atto I     1 ora e 40'
Atto II    1 ora         
Atto III  1 ora e 20'
 
BOLOGNA Teatro Comunale

  Parsifal  


(16 gennaio 2014 ore 19:00)

Giosetta Guerra

Dopo cento anni dalla prima rappresentazione in Italia, avvenuta proprio a Bologna il 1 gennaio 1914, torna al Teatro Comunale Parsifal, l’ultimo dramma musicale di Richard Wagner che aveva debuttato a Bayreuth il 26 luglio 1882.
L’opera, che attinge a Perceval li Gallois del troubadour Chrétien de Troyes, segna il ritorno di Wagner al tema del Graal, già affrontato molti anni prima in Lohengrin ed è un groviglio di contrasti tra bene e male, santità e magia nera, castità e tentazione, cristianesimo e paganesimo e perfino buddismo, elementi che si concretizzano in persone, animali e cose, non facili da mettere in scena. Il regista Romeo Castellucci, che firma anche scene, costumi e luci di questo spettacolo creato per il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, ha quindi messo in evidenza l’essenza di tali elementi anche affidandosi alla simbologia.
L’allestimento è intrigante, perché stimola a decifrare il significato dei simboli, perché colpisce l’occhio e la mente per l’elaborata e differenziata costruzione delle scene (intricata la prima, asettica la seconda, possente la terza), che però hanno poco in comune con gli ambienti descritti dal libretto.
 








Nel primo atto il palcoscenico accoglie una buia radura boscosa con alberi ad alto fusto che si piegano e cespugli frondosi che si spostano, in mezzo si celano mimetizzati i cavalieri vestiti di foglie a guardia del Graal, il calice con cui Cristo bevve nell' Ultima Cena, e della Lancia Sacra che ferì il Salvatore sulla Croce, custoditi nel monastero appositamente fondato dal vecchio Titurel. Nulla si distingue, se non a tratti, quando la luce del giorno appare fioca e quando le foglie si punteggiano di luci, l’illusione della foresta in movimento è data da piccoli zampilli luminosi che si rincorrono come le lucine dell’albero di Natale. Alcuni si spogliano e si raggruppano a dorso nudo con movimenti coreografici continui e lenti. Il serpe rimane sospeso per un po’, sul fondo una donna è evidenziata dalla luce come uno spettro, è Kundry che porta il balsamo per la ferita di Amfortas e si presenta coperta da una giacca bianca con cappuccio sopra una gonna stretta al ginocchio, uno strano essere le si struscia addosso. Giunge anche Parsifal che scopre lo scheletro del cigno e non ricorda di averlo ucciso. 
Sembra il bosco degli orrori popolato da losche figure in agguato e, quando questo si apre, compare il coro sotto la forte luce al neon delle americane abbassate.










Titurel canta dal loggione e suo figlio Amfortas mostra la ferita del costato. A Parsifal viene dato un grande disco, che dovrebbe essere uno specchio, al quale rimane agganciato di spalle per più di quindici minuti, poi lo lascia volare. Scende una corda rossa che turba Parsifal. Boh! La regia è molto statica.
Durante l’energica introduzione orchestrale al secondo atto viene proiettato su un velatino l’elenco delle sostanze nocive che avvelenano il mondo.  
Dietro niente palazzo arabo né giardino magico, ma un ambiente algido e asettico di un biancore accecante quasi maniacale, con corpi umani a terra e frammenti sospesi, poi i corpi prendono vita, sono donne nude con parruccone bionde che vengono legate e appese a testa in giù come bestie macellate; i carnefici sono Klingsor e un suo assistente, entrambi col frac e un grembiulone da macellaro.
Niente ragazze fiore, che si rincorrono allegramente giocando con Parsifal, ma ballerine nude, alcune contorsioniste in pose terrificanti,  
che Parsifal velato e tutto bianco nemmeno se lo filano e lui non le guarda affatto, anzi si copre le orecchie, forse come Ulisse per non sentire il canto delle sirene (coriste). Una di loro si posiziona a gambe aperte su un cubo e lì resta coi genitali in bella mostra per tutto l’atto, finché non le vengono chiuse le gambe e legate con un filo rosso. Una lunghissima scena corale e aerobica nella quale s’inserisce Kundry, vestita da sposa e col pitone albino in mano, che instaura con Parsifal un dialogo freddo e distaccato anche fisicamente; la scena di seduzione, sostenuta da una musica lentissima e pacata, è algida nella realtà, perché i due sono freddi statici e lontani, ma è focosa nella fantasia e, quando i due si avvicinano e si baciano, gli vien proiettata addosso in trasparenza l’immagine di un loro amplesso lungo e pieno di passione (ovviamente girato durante le prove, perché erano proprio loro due).
Nel terzo torna il buio, ricompare il cane, Kundry si lamenta  
distesa a terra vestita da boscaiola; l’immobilità statuaria dei cantanti si scioglie quando il vuoto viene via via riempito dal popolo che entra e dà forma ad una marcia silenziosa e compatta guidata da Parsifal e Gurnemanz, una marcia lunga ed estenuante (le prime due file camminano per circa un’ora su un tapis roulant, quindi non posso mai riposarsi) che ricorda il film Novecento di Bertolucci o Il Quarto potere di Pellizza da Volpedo. 
Scena di una potenza schiacciante.

Il regista Romeo Castellucci scrive sul programma di sala che per ideare questo allestimento ha completamente ignorato il testo, ha invece ascoltato e ascoltato e riascoltato la musica di Wagner fino ad avere delle visioni, delle sensazioni che ha poi concretizzato in quello che noi abbiamo visto. Beh, nulla di nuovo, è una vecchia tecnica che si praticava a scuola con i bambini: disegnare ascoltando musica classica, che non ha un testo narrativo, mentre l’opera ce l’ha e dimenticandosene si rischia di avere visioni sbagliate. Avrebbe fatto meglio il regista a spiegarci il significato della simbologia che noi invece abbiamo ricollegato alla storia. Lo scheletro del cigno era chiaro, Parsifal l’aveva ucciso, anche se era un po’ presto per essere diventato già scheletro; un pitone albino, vero a dimensioni naturali che si contorceva al collo di Kundry (sedato, spero) e in miniatura a mo’ d’orecchino 
all’orecchio di Nietzsche (nemico di Wagner, considerava Parsifal un’opera velenosa) proiettato di profilo sul sipario, forse simboleggiava l’insidia (ma l’insidia c’è in tante opere); presentare nude le ragazze fiore che cercano di sedurre Parsifal ci sta, farle esibire in difficili esercizi di contorsionismo è di grande effetto, ma perché legarle e appenderle al gancio come bestie macellate? Forse per rendere tangibile la crudeltà di Klingsor? E lasciarle penzoloni con la testa in giù….ma fa male….Con la testa in giù per tutto l’atto secondo che dura un’ora c’è stata anche la ragazza nuda distesa su un 
piedistallo
  
a gambe larghe con la “natura” in bella vista e non depilata rivolta verso il pubblico, è la natura materna per il regista, col figlio che le girava attorno?…aiuto….! E, se il primo bacio è per Parsifal una benedizione materna, perché nell’immaginario c’è uno scatenato rapporto sessuale?... Aiuto aiuto…! Ma forse l’immaginario è quello della donna.
E l’oretta di marcia forzata sul tapis roulant delle prime due file del popolo nel terzo atto…un vero stress per tutti. Fortuna che Gurnemanz non è giunto a grave vecchiaia, come detta il libretto, ma è un aitante giovane forte e slanciato. Invece non si sono viste né la sacra coppa, né la sacra lancia, né il sacro lago, né la colomba. Comunque, nonostante i vari interrogativi e una regia estremamente statica, l’allestimento era bello.
La musica è quella di Wagner e ci inebria.
L’inizio largo dei violini per una musica ad ampio respiro, che dà l’idea dell’aurora, cui si uniscono archi, clarini e flauti con alleggerimenti sospesi, sfocia in un tutto orchestrale morbido e disteso, rinvigorito dalle trombe e dalle percussioni. La grande orchestra del Teatro Comunale di Bologna, diretta da Roberto Abbado, tiene tempi lenti fin dalla lunghissima Ouverture, che ha di per sé una musica dilatata e tormentosa. Una tinta ecclesiale subentra quando si parla del sacro graal, il suono si fa più denso e incalzante all’arrivo di Parsifal ed emerge nel groviglio indistinto della selva alternando sonorità piene e smorzature. Lunghe pagine orchestrali si alternano alle parti cantate. Roberto Abbado dirige senza bacchetta con gesto morbido questa musica meravigliosa sempre sospesa lungo una linea sonora eterea, rarefatta, sommessa, e anche solare, vibrante, energica, ma i tempi sono lentissimi.

 
Sul piano vocale il ruolo più lungo è quello del vecchio Gurnemanz, il più anziano tra i cavalieri di Monsalvato, qui interpretato da un bellissimo giovanotto ungherese che il regista non ha invecchiato, Gábor Bretz, un basso dalla voce splendida nel colore e nel modo di porgere, una voce vigorosa e ampia, timbrata e ben proiettata, con magnifiche sonorità rotonde e morbide, fluidità d’emissione, capacità di sostenere suoni lunghi e sospesi e anche di cantare con naturalezza per quasi tutto il primo atto che dura un’ora e quaranta minuti. A dire il vero il racconto dell’autocastrazione di Klingsor poteva essere un po’ più corta, caro Wagner. Comunque la maestosità vocale e scenica di Bretz l’ha resa meno pesante.
 










Nel ruolo di Parsifal  torna il tenore della produzione di Bruxelles, l’americano Andrew Richards, già noto al pubblico del teatro comunale di Bologna per quel magnifico Sansone interpretato qualche anno fa. L’aspetto giovane e la faccia pulita, uniti ad un atteggiamento ingenuo e spaesato, servono a disegnare un Parsifal puro e lontano dalle contaminazioni della terra. “There's something transcendental in this music” ha affermato il tenore, che, con un canto tutto interiore, la soavità delle mezze voci e la morbidezza d’emissione, riesce a dare espressione ad una musica difficile non orecchiabile, sul piano tecnico la voce pulita e duttile passa con sicurezza dai consistenti appoggi gravi alle belle espansioni acute, l’accento è incisivo, il suono rotondo, le vocali scandite.
 









La parte di Kundry,  scritta per soprano, è appannaggio di Anna Larsson, mezzosoprano svedese, piuttosto chiaro ma con gravi di spessore, voce vigorosa e di bel colore, che la cantante gestisce bene anche stando distesa.

Bravo interprete nel ruolo del mago Klingsor, nemico del Santo Graal, Lucio Gallo esibisce una bella vocalità di basso, possente e ben proiettata. 
Il basso armeno Arutjun Kotchinian (Titurel antico Re, padre di Amfortas) esibisce voce densa di bella pasta. Il baritono tedesco Detlef Roth (Amfortas sovrano del regno del Graal) canterebbe anche bene, ma la voce non è ferma e non ha peso sufficiente. I due cavalieri sono il tenore Saverio Bambi e il basso Alexey Yakimov.
Il Coro del Comunale, che rimane quasi sempre nascosto o fuori campo, riempie il teatro di belle sonorità piene, l’alternanza di cori femminili celestiali e di cori maschili più terreni ci riportano in mente il Mefistofele di Boito. Maestro del Coro Andrea Faidutti.
 


Ph: Rocco Casaluci





mercoledì 15 gennaio 2014

Fano: Prima del silenzio



Fano Teatro della Fortuna

4 e 5 gennaio 2014

Una produzione del Teatro Eliseo in collaborazione con Fuxia contesti d’immagine

Prima del silenzio 

di Giuseppe Patroni Griffi

  

con Leo Gullotta ed Eugenio Franceschini
e le video apparizioni di Paola Gassman, Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano
regia Fabio Grossi
video Luca Scarzella
musiche Germano Mazzocchetti
disegno luci Umile Vainieri 
risoluzione scenica Luca Filaci
disegno audio Franco Patimo
assistente regista Mimmo Verdesca

Recensione di Giosetta Guerra

Parola e azione tra il reale e il virtuale

Prima del silenzio è un’opera teatrale scritta nel 1979 da Giuseppe Patroni Griffi per Romolo Valli, che la interpretò egregiamente e morì dopo la recita per incidente stradale.
Il protagonista è un anziano poeta chiuso nel suo mondo coi ricordi del passato che spesso assumono i connotati dell’incubo, l’unico rapporto con la realtà è l’amicizia di un ragazzo che vive a casa sua.
La differenza generazionale è spesso motivo di scontro: la parola contro l’azione, il vagheggiare “pallido e assorto” contro la vivacità e l’immediatezza dell’agire, la sensibilità e le insicurezze contro il cinismo e la spregiudicatezza, e viceversa, tuttavia i due, forse legati da un sentimento che va oltre l’amicizia, riescono a stemperare proprio nello scontro, che è poi un confronto, le loro morbosità. Ma più il poeta che il ragazzo, perché, mentre per il poeta il ragazzo è, come ultima fase della vita, un’ancora cui aggrapparsi per dare una forma di concretezza alla sua esistenza stretta dentro una torre d’avorio, per il ragazzo il poeta è una fase iniziale della vita e quindi trampolino di lancio verso il mondo che sta fuori della torre e che l’aspetta con tutti i suoi rischi e le sue malie. È evidente che il rapporto non dura e chi ne esce con le penne strappate è ovviamente l’anziano poeta, non tanto per la fine di un’amicizia, quanto per quella porta sbattuta sulle sue illusioni. E qui sta l’attualità e l’immortalità del testo. Ogni persona nasce e muore sola, ma vive anche sola pur a fianco di altri; l’amore, l’amicizia, i rapporti interpersonali sono parentesi, sono attimi che arricchiscono e aiutano, ma ai quali non ci si può aggrappare, perché nessuno può contare su qualcuno in modo esclusivo e duraturo e, in fondo, non ne ha neanche il diritto. Quindi delusioni, pretese, gelosie, senso del possesso sono solo sintomi d’insicurezza. Nulla è per sempre, perciò godiamoci le nostre parentesi. Non è pessimismo, è concretezza.
Tutto questo ci ha trasmesso l’interpretazione magistrale di due bravissimi attori sul palcoscenico del Teatro della Fortuna di Fano: Leo Gullotta ed Eugenio Franceschini.
 
Leo Gullotta, che nel corso della sua lunga ed onorata carriera è passato dal cabaret ad un repertorio impegnato con risultati eccellenti, ripropone questa non facile pièce, dove la parola ha un valore shakespeariano e il fraseggio ridondante è quello della poesia (più barocca che contemporanea); la sua recitazione intensa, sostenuta dal vigore dell’accento, dal magnetismo dello sguardo e da una grandiosa tenuta scenica, ne fa un vero capolavoro. Personaggio un po’ bohémien nei sogni e nell’aspetto, coi capelli lunghi bianchi che s’inargentano o s’imbiondiscono al cambio delle luci, in tenuta da casa casual (sembra un pigiama) o con orpelli luccicanti nelle mascherate improvvisate, non ha del bohémien le speranze e lo slancio verso un futuro per lui già passato.
 
Nel lungo travagliato dialogo, che diventa quasi un cervellotico monologo perché il ragazzo risponde a tratti, riaffiora tutto il suo vissuto (che compare in proiezioni), una sorta di rilettura senza possibilità di correzioni. 
Bravissimo Leo!

 
Gli sta a fianco il giovane Eugenio Franceschini, che a soli 22 anni ha una padronanza scenica, una scioltezza del gesto e una fluidità di recitazione da grande attore. E poi è bellissimo: un viso pulito e maschio su un fisico scolpito mozzafiato e ben dotato, che non ci è dispiaciuto vedere <nature> sotto la doccia proiettata sul velatino. A lui sono toccate le scene più osées, come quella dell’autoerotismo, a dire il vero un po’ troppo lunga fino ad essere per noi imbarazzante, praticato, per finta naturalmente, sul divano girato all’indietro con un’arte attoriale superba sì da farlo sembrare vero. L’attore ha voce decisa e di bel timbro e ben ci sta nel ruolo di un giovane cinico, sfrontato, egocentrico, sicuro di sé, ma soprattutto libero.

La scena è un cubo vuoto con pareti delimitate da tubi al neon che cambiano colore, al centro in alto il titolo al neon, un velatino ogni tanto scende per rendere ancor più impenetrabile l’ambiente e permettere doppie proiezioni, l’unico arredo è un divano rosso vintage, dove i due si siedono, si sdraiano, da soli o insieme, mimano l’azione dei rematori come se quello fosse una barca e si sente il fruscio del mare che compare sul fondale con riflessi argentei e si  
polverizza sul velatino, viene poi aggiunto un tavolo con libri, culla della parola, perché “la vita è parola”, ma, se la parola non è capita, naufraga, si disintegra e una pioggia di lettere dell’alfabeto, senza senso perché isolate, invade il palcoscenico. Bellissima scena.
 


Certo le trovate registiche di Fabio Grossi sono intelligenti e spettacolari, ma la più sorprendente è la scelta di far interloquire i presenti con gli assenti che sono visivamente ma non concretamente presenti e parlano, si muovono e rispondono al poeta, dando vita ad un dialogo dell’assurdo che vive solo nella mente disturbata del poeta. Sono le persone del passato che riaffiorano e incombono come fantasmi, la moglie, il figlio, il cameriere, e si moltiplicano, s’ingigantiscono, si uniscono, assumono forme distorte, fino a soffocarlo, persone dalle quali il poeta si difende dicendo “Non so chi siete, non vi conosco”.
Nelle vesti dell’altera e distaccata moglie compare in immagini in 3D una straordinaria Paola Gassman, nel ruolo del figlio piccolo borghese c’è Andrea Giuliano e in quello del venale cameriere Sergio Mascherpa. Una trovata veramente geniale. Il tutto supportato dal suggestivo disegno luci di Umile Vainieri  e da musiche appropriate scelte da Germano Mazzocchetti (gli altoparlanti erano posizionate lungo il boccascena).


 














martedì 7 gennaio 2014

AN Teatro delle Muse: concerto gospel



Ancona Teatro delle Muse

organizzato da "Ancona Jazz" in collaborazione con il Comune di Ancona e il Teatro delle Muse per la tradizionale gospel night alle Muse

Washington Gospel Singers

 23 dicembre 2013

Giosetta Guerra

Pensavo di ascoltare un coro gospel e di ritrovarmi immersa nelle esotiche sonorità delle voci afro-americane, mi son trovata invece di fronte ad un esiguo quartetto femminile (senza il tenore annunciato), accompagnato da un pianista e guidato da un direttore/presentatore che cantava ogni tanto ed incitava il pubblico a cantare, a muoversi e a battere le mani.
Erano gli Washington Gospel Singers, con i soprani Rachel Nicole MassayRebekah Lynn Brown e gli alti Margaret Carol JacksonSalimu Amini Terrell, dirette da Nate Brown e accompagnate da Christopher Leach al piano.
Bello l’impasto timbrico di queste voci femminili, corpose, estese, solide, ben impostate e timbrate, interessante il colore di ognuna di loro negli assolo, intensa l’interpretazione, scarso lo spessore vocale di Nate Brown, che si è comunque distinto come musicista suonando il sassofono e come intrattenitore per la padronanza assoluta del palcoscenico e la versatilità nella gestione del pubblico. Tutto era amplificato.

Il repertorio eseguito non mi era molto familiare, tranne I will follow himda Sister Act, attaccato con morbidezza e poi velocizzato e ritmato, What a wonderfull world”, cavallo di battaglia di Louis Armstrong, eseguito al sax alto da Nate Brown e "When the Saints go marching in", un inno gospel americano, di cui hanno ripetuto più volte solo la prima strofa.
Era comunque un programma variegato: brani dal sound brillante, altri con notevole senso del ritmo, con ripetitività incalzante, molto partecipati dagli artisti, ma anche dal pubblico esaltato dagli incitamenti del presentatore che interloquiva in inglese con la gente incitandola a sottolineare il ritmo col battito delle mani. Non è che il risultato sia stato esteticamente piacevole, a causa di un battito a volte scomposto e fuori tempo, che oltre tutto copriva le voci (la frenesia di oltre mille persone, a volte anche in piedi, contro la voce di quattro cantanti) e costringeva spettatori come me, naturalmente ferma e seduta, a perdere la malia del canto e a subire la visione di fondi schiena di ogni misura nell’atto di dimenarsi con ritmo personalizzato.
I concerti del Washington Choir sono infatti un prodotto di intrattenimento e rappresentano una festa in cui il pubblico viene coinvolto fin dalle prime note, quindi io, che vado ai concerti per ascoltare voci e musica, sono capitata nell’ambiente sbagliato.