sabato 27 marzo 2010

Ancona, Teatro delle Muse: Don Giovanni edizione Macerata.

Foto: Don Giovanni - Teatro delle Muse di Ancona

(recita del 21 marzo 2010)
di Giosetta Guerra

Approda al teatro delle Muse di Ancona il bell’allestimento di Don Giovanni che Pier Luigi Pizzi aveva ideato per la stagione maceratese 2009. La scatola scenica, costruita in prospettiva, mantiene gli specchi solo su una parete e i sipari, che si aprono e si chiudono anche incrociandosi per il cambio veloce e nascosto degli ambienti o che si posizionano per aumentare la profondità della scena, non sono rossi ma marrone. Ricreato anche il geniale spazio aperto nel sottopalco per celare o far scivolare le persone che non vogliono mostrarsi e per inghiottire Don Giovanni trascinato e dilaniato da fameliche Erinni nude. Gli arredi sono gli stessi: un grande letto bianco quasi onnipresente, un divanetto e delle poltroncine d’epoca, una tavola, alcuni sgabelli e…un mantello rosso: simbolismo e non descrittivismo, essenzialità e non ridondanza. Un allestimento pulito, stilizzato, chiaro (per la comprensione) anche se spesso in penombra, leggero, elegante, con pochi colori decisi, insomma PIACEVOLE.

La regia gioca sempre sull’erotismo giocoso e scanzonato del duo Don Giovanni- Leporello e sulla loro prestanza fisica spesso messa a nudo, sulla fragilità dei sentimenti, sulle intemperanze della gioventù e sul mistero che circonda la finale resa dei conti. I personaggi sono tutti giovani e così gli interpreti. La maggior parte degli artisti sono quelli che avevano cantato a Macerata: il bravissimo basso marchigiano Andrea Concetti nel ruolo di Leporello, il soprano greco Myrtò Papatanasiu in quello di Donna Anna, i soprani Carmela Remigio come Donna Elvira e Manuela Bisceglie per Zerlina, il basso William Corrò (Masetto). Concetti, straordinario sia scenicamente che vocalmente, ha le molle in corpo e una miniera d’oro in gola (bella voce scura ricca di armonici, estesa e vibrante, dal colore speciale nella tessitura grave, sonora e musicale in tutta la gamma, interpretazione curata in ogni gesto). Corrò è un giovane basso dal bel timbro e molto credibile nei panni di Masetto. La Remigio canta bene con giusto accento, buona messa di voce, dizione non sempre chiara, la voce è bella e vibrante, di medio spessore, l’interpretazione appropriata. La Papatanasiu ha voce tagliente, estesa, di buon peso e la usa prevalentemente sul forte o sul mezzoforte, ma riesce anche a piegarla a lunghi ed estasianti filati, a bellissimi suoni tenuti a lungo, all’agilità dei trilli, la dizione è da perfezionare. La Bisceglie è un soprano dalla voce fresca che riesce ad esprimere la tinta mozartiana.

Un miglioramento c’è stato nella scelta del Commendatore, interpretato dall’ottimo basso profondo Gudjon Oskarsson (voce poderosa, ampia, di grande peso, di bellissimo colore, sonorissima in ogni registro, emissione correttissima) e di Don Ottavio, interpretato da Saimir Pirgu, un tenore dal timbro bello e deciso, dalla grana vocale robusta e nel contempo duttile, quasi un baritenore per la corposità e il peso della voce, che sa anche piegarsi a morbidezze e delicate mezze voci (“Alla sua pace”), capace di fiati lunghissimi, tenuta dei suoni in acuto e in grave, eccelse messe di voce e smorzature e giusto accento (“Il mio tesoro intanto” da manuale).

Un peggioramento invece c’è stato nell’affidare il ruolo protagonista di Don Giovanni ad un cantante che in pratica non abbiamo sentito cantare. Il baritono americano Nmon Ford, un bellissimo ragazzo di colore dal fisico aitante, dalle movenze feline e dal sorriso accattivante, ha presentato un Don Giovanni stuzzicante e sensuale, ma spiazzante sotto il profilo vocale, la sua voce non l’abbiamo sentita: il suono è inconsistente, il canto è solo accennato sottovoce, non c’è una linea di canto, talvolta esce un volume più consistente o una frase più timbrata, ma allora la voce risulta opaca e con un vibrato intenso che la rende tremolante. No volume, no spessore, no colore = no Don Giovanni. Eppure gli è stato conferito il Premio Corelli 2010. Boh!

Alla guida dell’Orchestra Regionale delle Marche e dell’Orchestra fiati di Ancona, il direttore Asher Fisch ha tenuto inizialmente tempi lenti, senza ritmo, poi il colore è cresciuto e così l’equilibrio, fino a far uscire la tinta mozartiana. I movimenti coreografici sono di Roberto Pizzuto, le luci di Sergio Rossi. Lo spettacolo ha riscosso il gradimento del pubblico.

Le Poème Harmonique - Leçons de ténèbres pour le mercredi Saint del compositore francese François Couperin

Foto: Benedicte Desrus / FMX – Festival de México

Ramón Jacques

L’esibizione de Le Poème Harmonique, gruppo francese specializzato nell’interpretazione della musica dei secoli XVII e XVIII, era uno degli eventi della XXVI edizione del Festival de México (FMX), importante festival che si svolge sempre nei luoghi più antichi del centro di Città del Messico. La sede di questo concerto è stata il cortile centrale del Antiguo Convento y Hospital de Pobres y Convalecientes de la orden de los Betlemitas, edificio del XVII secolo che ospita oggi un museo di storia economica e dove, alla luce di qualche candela dietro il palcoscenico, si è creato un ambiente estremamente evocativo per l’esecuzione delle Leçons de ténèbres pour le mercredi Saint del compositore francese François Couperin. Le leçons de ténèbres sono degli adattamenti polifonici delle lamentazioni del profeta Geremia, que piangeva la distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi e furono composte per le liturgie della Settimana Santa del 1714 nell’Abbazia di Longchamps, in Francia.

La splendida e commovente esecuzione del brano da parte dell’ensemble sotto la direzione di Vincent Dumestre, che suonava anche la tiorba, è riuscita a estrarre costantemente la serenità e la spiritualità insiti nel brano con un suono compatto e omogeneo. Nella prima delle tre parti, per soprano e basso continuo, è emersa l’intensità contenuta della linea vocale, senza che si perdessero il carattere e la tranquilla continuità del brano. Nelle due parti restanti si è aggiunta la voce di un secondo soprano e sia Eugénie Warnier che Claire Debono hanno esibito un timbro purissimo, nitido ed emozionante, in particolare nella più nota Troisième Leçon de Ténèbres à 2 voix che, con un ripieno armonico più ricco grazie alla viola da gamba e l’organo, è arrivata a toccare nel profondo l’ascoltatore, trasportandolo in un’altra dimensione e, forse, in un’altra epoca.

sabato 20 marzo 2010

Concerto di José Carreras - Messico


Foto: José Carreras - Sabina Puértolas - El Porvenir.- copyright.

Ramón Jacques
Nonostante il ritiro di José Carreras dal circuito operistico internazionale, non è possibile dimenticare il grande apporto del tenore, attraverso una prolifica carriera, al mondo della lirica, dove è leggenda vivente del canto. Ed è questa la ragione per cui la sua presenza continua ad attrarre tanto pubblico ai suoi concerti, com’è successo al Auditorio Nacional di Città del Messico. Per questo concerto è stato scelto un gradevole programma, senza richiedere un eccessivo impegno vocale, iniziato con quattro canzoni di autori italiani, molto conformi al gusto e al temperamento di Carreras: L’ultima canzone di Francesco Tosti, Pecchè di Francesco Pennino, Silenzio Cantatore di Gaetano Lama e Passione di Nicola Valente. Il programma continuava con un brano più prossimo allo spirito del tenore come la romanza catalana Rosó da Pel teu amor di Josep Ribas. In tutti i pezzi l’artista ha sfoderato bella dizione, ardore ed emozione, col suo inconfondibile timbro vocale. Il ciclo seguente comprendeva affascinanti brani in spagnolo come Lejana tierra mía e El día que me quieras di Carlos Gardel, addentrandosi successivamente nella zarzuela con la jota Ya mis horas felices da La del Soto del Parral di Soutullo y Vert e suggellando la serata colla sua celebre e infiammata interpretazione di Granada di Lara, scatenando a quel punto una tumultuosa ovazione.

Notevole il soprano navarrese Sabina Puértolas, che ha sfoggiato una linea vocale corretta, un timbro chiaro e cristallino, fornita delle agilità richieste dall’aria Je veux vivre dall’opera Romeo e Giulietta di Gounod, con espressività in Les filles du Cadix di Delibes, una grazia speciale in Carceleras da Las hijas del Zebedeo di Chapí, malizia in Me llaman la primorosa dal Barbero de Sevilla di Giménez y Nieto. A fianco di Carreras il soprano ha cantato assai gradevolmente il Dúo e la Jota dal Dúo de la africana di Manuel Fernández Caballero.

La Orquesta Pro Arte ha creato una bella cornice musicale durante la serata sotto l’esaltata ma sicura bacchetta di Enrique Ricci, con l’esecuzione sinfonica della Suite 2 de L’Arlesianne di Bizet, l’Intermezzo da Pagliacci e l’intermezzo da La Boda de Luis Alonso. Davanti all’entusiasmo del pubblico sono stati offerti cinque bis, tra cui O mio babbino caro, Core ’ngrato e il brindisi da La Traviata di Verdi.

Da una casa di morti di Leoš Janáček - Teatro alla Scala, Milano

Fotografie di Ros Ribas
Janáček compone, Chéreau umanizza

Massimo Viazzo

E’ umanissimo il mondo dei campi di prigionia nella visione di Patrice Chéreau. Il regista francese in questo spettacolo - creato ad Aix-en-Provence due anni e mezzo fa e coprodotto, tra l’altro, proprio dal teatro milanese - realizza un capolavoro di intensità psicologica fuori dal comune riuscendo a rendere avvincente un’opera sostanzialmente senza trama. L’ambientazione è tutto sommato atemporale con alte pareti geometriche, incombenti (tipiche dell’estetica del collaboratore di sempre Richard Peduzzi) delimitanti uno spazio scenico mai invasivo. Tre momenti da ricordare: la pioggia di rifiuti (mai così attuale) che sigla il passaggio dal primo al secondo atto, l’efficacissima pantomima del secondo atto straniante e malinconica, e l’aquila di legno sostenuta dai forzati che si libra in un volo catartico al termine dell’opera. Da una casa di morti racconta un serie di vicende sostanzialmente legate al passato dei prigionieri, calate nella meccanica ripetitività dei gesti quotidiani della vita del campo, legate tra loro da un esilissimo filo conduttore e che si coagulano in tre superbi monologhi, uno per atto, veri microdrammi di energica sostanza musicale. Ma tutto il lavoro è pervaso da un fremito inarrestabile, da una vigoria franca, da una forza espressiva divorante. Esa-Pekka Salonen sfodera una vitalità ritmica perseguita con pertinacia fin dalle prime battute, un controllo pressoché infallibile degli impasti timbrici ed un passo teatrale travolgente.



Il direttore finlandese (al suo debutto in una produzione operistica nel massimo teatro milanese) predilige una certa stringatezza nell’incedere senza venir meno la cura delle dinamiche e, non ultimo, la ricerca dell’eufonia: tutto suona affilato, tagliente, aggressivo, ma mai cattivo, in un’esecuzione più mossa, più chiaroscurata rispetto a quella originale e cartesiana realizzata da Pierre Boulez nel 2007.

E mai come nell’ultimo capolavoro di Leóš Janáček il lavoro d’équipe paga! Non è solo per merito di Chéreau che i ritratti dei carcerati restano impressi nella memoria. Come dimenticare, per esempio, la demenza di Skuratov (un tarantolato John Mark Ainsley), l’alienazione amarissima di Filka (un aggressivo Stefan Margita) o la gagliardia di Šiškov (seducente il morbidissimo canto di Peter Mattei) e poi ancora la nobiltà di Gorjančikov (un elegante Willard White) o l’innocenza di Aljeja (un Eric Stoklossa davvero commovente) se anche il cast, vocalmente, non fosse stato di formidabile aderenza al dettato drammaturgico? E non ultimo è da sottolineare la prova di grande compattezza, timbricamente scurissima, del Coro del Teatro alla Scala, in forma smagliante. Insomma uno spettacolo vincente!

lunedì 15 marzo 2010

Hey Girl! Socìetas Raffaello Sanzio - Città del Messico

Fotos: Silvia Costa (Hey Girl!)- Crédito Ariette Armella / Festival del Centro Historico y Alejandro Barragán

Ramón Jacques
La ventiseiesima edizione del Festival de México ha ospitato la compagnia italiana di teatro contemporaneo Socìetas Raffaello Sanzio, che ha presentato nel Teatro de la Ciudad Esperanza Iris la messa in scena della sua produzione Hey Girl! L’idea di quest’opera si manifestò per la prima volta al controverso regista della compagnia, Romeo Castellucci, mentre osservava tre giovani donne alla fermata dell’autobus, ognuna persa nel proprio mondo, e fu quest’immagine che lo spinse a pensare alla condizione delle donne d’oggi.

Il lavoro si svolgeva in una sequenza di scene senza un argomento definito, con elementi essenziali (enormi maschere, sculture, dipinti, spade) e simbolismi esagerati che creavano una visione enigmatica, surreale e assurda della realtà. Non esistendo dialoghi, le parole ridotte solo a un mormorio, gridi e sussurri, l’attenzione si concentrava principalmente negli effetti visivi e sonori che avvenivano in scena.

L’attrice principale, Silvia Costa, era la giovane donna che un bel giorno si sveglia avvolta in un materiale viscoso, come un insetto che stesse per nascere liberandosi del bozzolo, e che, accompagnata da una leggera melodia che a poco a poco cresceva di volume e intensità, ha reso questa scena come la più suggestiva della serata. A partire da quel momento iniziavano suoni, incubi, allucinazioni e la perturbante realtà della ragazza che, dopo essersi guardata allo specchio, iniziava a deambulare in scena sconsolata e disperata, come se le sue espressioni e le sue azioni significassero qualcosa. Si inginocchiava per mettersi il rossetto, si vestiva con una tela come un mantello protettore e impugnava una spada incandescente che stava di fronte a lei: forse si poteva interpretare come se fosse una lotta per il suo sesso, cosa resa più evidente attraverso l’uso di alcune icone femminili di riferimento proiettate su uno schermo, come le regine decapitate Anna Bolena, Maria Stuarda, Maria Antonietta, uno stralcio di Romeo e Giulietta e le due domande con cui è terminata la recita Che devo fare? Che devo dire?
Come nelle sue opere precedenti, soprattutto Purgatorio, ispirata alla Commedia di Dante, Castellucci ricorreva ancora una volta all’uso della violenza, alla musica di crescente intensità, al fracasso, all’impatto e alla freddezza delle immagini, a una tensione provocata dall’illuminazione, sempre cercando di irritare, provocare, disturbare e sconcertare il pubblico in sala più che facilitargli una riflessione o raccontargli una storia digeribile.

Alla fine l’opera ha lasciato aperte tutte le interpretazioni che ogni spettatore avesse voluto darle.

domenica 7 marzo 2010

Peter Grimes di Britten - Teatro Regio di Torino


Peter Grimes: la vittoria dell’ipocrisia.
Foto: Ramella & Giannese © Fondazione Teatro Regio di Torino

Massimo Viazzo

E’ il mare il grande assente di questa produzione. Chi si aspettava di vedere in scena barche, vele, sartie, onde… è forse rimasto deluso. Willy Decker ha addirittura sostituito il coro dei pescatori che apre il primo atto (e chiude l’opera) con la seduta di prova della corale parrocchiale diretta dal Pastore in persona. A Decker non interessa tanto dipingere il naturalismo del Borough, ma il bigottismo di un ambiente asfissiante (alte pareti mobili scure incorniciavano la scena sullo sfondo della quale faceva capolino il cielo tempestoso) e chiuso in se stesso, un ambiente che non è in grado di accettare il “diverso” e che a poco a poco, dopo averlo emarginato, lo distrugge. Non a caso la processione degli uomini del Borough che sale alla capanna di Grimes per scoprire chissà quali nefandezze (nel secondo atto) scandita dal ritmo ossessivo del tamburo è aperta da un uomo che innalza una croce. La vittoria dell’ipocrisia: è questa la visione di fondo del regista tedesco, che ha saputo confezionare uno spettacolo molto emozionante grazie anche ad una recitazione curatissima.


Memorabile la prova di Neil Shicoff nel ruolo del protagonista. Il suo Peter Grimes, così scontroso, violento, visionario, ma anche tenero, si imprime nella memoria (veramente toccante la scena finale del terzo atto in cui Grimes, ormai pazzo, culla la sua giacca vedendo in essa le fattezze del giovane apprendista). E poi vocalmente Shicoff non si risparmia mai, piegando, da grande artista quale è, un’emissione vocale poco ortodossa a fini meramente espressivi. Ma tutto il cast è stato all’altezza e in Peter Grimes i ruoli minori sono importantissimi per far funzionare al meglio lo spettacolo: dolente e rassegnata Nancy Gustafson (Ellen Orford), incisivo e carismatico Mark Doss (Balstrode), petulante e grottesca Elena Zilio (Sedley). Grande merito va riconosciuto al direttore d’orchestra giapponese Yutaka Sado che ha imposto alla partitura un ritmo serrato, drammaticissimo, senza tralasciare il dettaglio melodico o la preziosità timbrica. E l’Orchestra del Teatro Regio lo ha seguito con entusiasmo. Da incorniciare, infine, la magistrale prova del Coro del Teatro Regio diretto con mano ferma e sicura da Roberto Gabbiani.

giovedì 4 marzo 2010

Recital del soprano Maria Dragoni - Senigallia

Foto: Salvio Parisi

SENIGALLIA – AUDITORIUM SAN ROCCO
RECITAL DEL SOPRANO MARIA DRAGONI
(Domenica 14 febbraio 2010)


Di Giosetta Guerra

Maria Dragoni, l’erede vocale di Maria Callas, ha ricevuto il Premio “Alessandro Lanari – Protagonisti del Mondo del Melodramma: “Primadonna Assoluta” nel corso di una serata di gala tenutasi al teatro "Ferrari" di S. Marcello (AN). Il soprano ha tenuto un recital, che poi ha ripetuto nei giorni successivi al teatro "Cortesi" di Sirolo, all' “Auditorium "S. Rocco" di Senigallia e al teatro "Mestica" di Apiro. Noi l’abbiamo ascoltata a Senigallia in una sala purtroppo poco affollata.

Maria Dragoni, soprano drammatico d’agilità, si è presentata in splendida forma sia fisica che vocale; dopo 25 anni di carriera, mantiene quella tecnica agguerrita, che, unita a doti vocali non comuni, la fanno specialista nel canto di bravura. Accompagnata al pianoforte da Leonardo Quadrini, ha interpretato le arie più note e più difficili del repertorio ottocentesco, con una rapida incursione nel ‘600.

Ecco ciò che ha cantato: O quante volte o quante da I Capuleti e Montecchi di Bellini, Regnava nel silenzio da Lucia di Lammermoor di Donizetti, Addio del Passato da LaTraviata di Verdi, Ave Maria di Caccini, Qui la voce sua soave da I Puritani di Bellini, Casta Diva da Norma di Bellini, Nel dì della vittoria…Vieni t’affretta da Macbeth di Verdi (una Lady Macbeth diabolica), È strano da La Traviata di Verdi, O mio babbino caro da Gianni Schicchi di Puccini. E scusate se è poco… La cantante ha esibito acuti rinforzati e smorzati, trascinanti impennate acute, sensibilissime mezze voci, filati lunghissimi, arcate luminose, una voce screziata, un’intensità drammatica in ogni sfumatura. Maria ha il dramma nella voce, ma anche la duttilità del soprano leggero.

La Dragoni ha un rapporto speciale con le Marche: nel 1984 ha debuttato Il Pirata di Bellini al Teatro Pergolesi di Jesi, dove ha cantato poi Norma di Bellini (la più bella Casta diva dei tempi moderni) e si è esibita anche in opere rare, come Ines de Castro di Persiani nel 1999; nel 2000 ha ricevuto dall’Associazione Musicale Mario Tiberini il Premio Lirico Tiberini d’oro.

Il riconoscimento conferitogli quest’anno dalla Fondazione “Alessandro Lanari”, ente marchigiano di settore che vanta una lunga esperienza operativa e un’ampia riconosciuta professionalità in ambito nazionale e internazionale, è nel nome di Alessandro Lanari, grande impresario d’opera marchigiano che nell’Ottocento resse le sorti dei più importanti teatri lirici nazionali.