sabato 17 novembre 2012

Jesi - Macbeth



 Teatro Pergolesi    di Jesi (AN) 

Allestimento ricco di trovate in un palcoscenico nudo

(11-11-12)

Il Macbeth delle facce bianche

Di Giosetta Guerra


L’avidità non fa guardare in faccia a nessuno, tanto vale aver di fronte facce tutte uguali, la follia annebbia la visione della realtà, che perde quindi colore, contorni, definizione, qualche sprazzo di lacerante lucidità serve a mettere a fuoco le nuove vittime o le allucinazioni dei misfatti.
Questo, secondo me, è il significato dell’allestimento del Macbeth di Verdi al Teatro Pergolesi di Jesi con le scene di Josef Svoboda riprese da Benito Lenori, le luci e la regia di Henning Brockhaus, i costumi di Nanà Cecchi, le coreografie di Maria Cristina Madau.
Allestimento ricco di trovate.
Il sipario si apre su un gelido spazio, tipo paesaggio lunare, popolato di streghe gesticolanti, di acrobati sospesi e corpi rotolanti, squarciato da lampi di luce bianchissima, rossa e blu.
Bella l’idea registica delle streghe funambole che si attorcigliano in aria su lenzuola bianche.  
Il palcoscenico è nudo e crudo, solo un artigianale trono regale dritto o ribaltato e un tavolo apparecchiato all’occorrenza, quinte incolori si muovono in ogni direzione, si fanno trasparenti od opache secondo la provenienza della luce, con la tecnica delle proiezioni diventano grigi muri ruvidi, bianchissime pareti lisce, grumosi pannelli lavici, accumulo di teschi e di fili spinati, groviglio di rami e di alberi.

Nella scena del  banchetto un gigantesco specchio riflette il teatro, il grande tavolo e i due protagonisti, ma lascia anche comparire sul retro le visioni del delirio di Macbeth. La scenografia di un grigiore assoluto definisce più l’atmosfera opprimente che gli ambienti. Squarci di luce lampeggiante acuiscono il senso di terrore, grigi o neri anche tutti i costumi, grigio chiaro per le bende che fasciano le quasi onnipresenti streghe.  In più le proiezioni effettuate dal davanti spesso investono anche i personaggi che appaiono come figure indefinite e traballanti.  
Tutti hanno la faccia dipinta di bianco.
I pochi elementi di colore sono i lunghi capelli rossi inanellati della Lady, le corone dorate e i mantelli rossi dei reali, l’azzurro della mensa imbandita, le immagini delle visioni. 

Con gli occhi della pazzia tutto è visto all’incontrario: per brillantezza del colore e nitidezza delle forme le visioni e le allucinazioni sono più realistiche della realtà stessa che è invece visionaria e allucinata.
Il regista avrebbe dovuto lavorare di più sui caratteri, avidità e follia generano mostri e la coppia dovrebbe essere fortemente caratterizzata nella gestualità e nell’espressione. Su questa linea la Lady spiritata e con gli occhi sbarrati è la più vera scenicamente, il re doveva essere più scavato dal tormento e Banco doveva essere più grintoso.
Anche vocalmente la Lady Macbeth di Tiziana Caruso è assolutamente credibile, non tanto per perfezione tecnica e vocale, quanto per la forza dell’accento, la potenza dell’emissione, lo scavo della parola. Il soprano ha esibito una voce graffiante, un po’ intubata nei gravi ma squarciante negli acuti (Vieni, t’affretta), una bella voce scura con zona acuta che ferisce, agile e scintillante nel Brindisi, meno plastica nella nota aria La luce langue (suoni sommessi inudibili, gravi vuoti, slanci acuti gridati). Ha modulato meglio la voce quando la follia era in stato avanzato, pur mantenendo l’aggressività e la potenza vocale, che qualche volta avrebbe potuto anche sciogliersi in filati, come fa la Theodossiou. Anche se l’emissione non è sempre fluida e spesso l’urlo è in competizione con l’orchestra, l’interpretazione viscerale della Caruso ha restituito una procace Lady violenta e assassina sia nella voce che nelle finzione scenica, una pazza in trance nella scena del sonnambulismo.
La voce ampia, piena ed estesa di Luca Salsi ben si adatta alla smania di grandezza di Macbeth. Il baritono canta bene, usa con vigore ma anche con morbidezza una voce grandissima, dai suoni puliti, rotondi, sostenuti, lunghi ed ampissimi e dalla zona acuta brillante e luminosa, grazie ad un fraseggio ora irruente e temperamentoso ora fluido e sfumato, all’intensità dell’accento basato sullo scavo della parola scenica. Imponente anche nel gesto. Linea morbida e fiati lunghissimi per  Pietà, rispetto, onore (e non amore come da libretto, l’ha detto e l’ha fatto).

Banco aveva la splendida voce del basso Mirco Palazzi; i suoni gravi penetranti e puliti, le magnifiche arcate con fiati lunghi e suoni sostenuti e ben udibili anche sopra le alte sonorità dell’orchestra (Come dal ciel precipita), la proiezione morbida della voce (Oh qual orrenda notte) hanno ottenuto consenso e ammirazione.
Sonorità generalmente altissime delle voci e dei suoni che comunque si amalgamano, si fondono e coinvolgono.

Pur essendo coreano, Thomas Yun (Macduff
ha esibito una buona pronuncia italiana, ma anche bel colore tenorile, accento incisivo, squillo robusto, dimestichezza col canto sfumato, buona linea di canto con le dovute smorzature e fiati tenuti (Ah, la paterna mano).
Dario Di Vietri (Malcolm) è un tenore acuto dal timbro un po’ aspro.
Il basso Carlo Di Cristoforo (medico) ha voce scura di bel colore ed espressione carica di spavento.
Miriam Artiaco (dama) è un sopranino pulito dai suoni un po’ stretti.
Andrea Pistolesi (domestico, sicario e araldo) è un baritono chiaro.

Magnifiche le atmosfere create dal coro lirico marchigiano “V. Bellini”, preparato da Pasquale Veleno, allettanti i quadri d’insieme. In Patria oppressa  la pienezza vocale è stata coinvolgente, il canto sul fiato con formidabile sostegno dei suoni sfumati e tenuti a lungo, la potenza nel canto pieno e la gestione morbida della voce, hanno caratterizzato la sezione maschile, ottima anche nel canto staccato, ritmato e sillabato.
Brave le streghe anche nel canto scandito (Tre volte miagola) ma il volume è poco.
Il M° Giampaolo Maria Bisanti ha diretto con foga e partecipazione un’orchestra incalzante, tormentosa, a volte troppo sonora. L’orchestra era la FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana.
Un bello spettacolo, come siamo soliti vedere al Teatro Pergolesi di Jesi.

Per ricordare gli artisti marchigiani del passato.
Mario Tiberini debuttò il ruolo di Macduff nel secondo cast di Macbeth agli inizi di carriera a Palermo il 13 dicembre 1852 col nome di Mariano Tiberini (nel primo cast c’era Antonio Pompeiani), accanto a Ettore Barili (Macbeth), Eufrosina Marcolini (Lady), Cesare Nanni (Banco), Paolo Mazza (Malcolm), Adelaide Orlandi (Dama), Giovanni Grifo (domestico), Francesco Rinaldi (medico).

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