Martina Franca - Chiostro
di San Michele
L’ambizione delusa,
commedia
pastorale in tre atti
(Recita del 30 luglio 2013)
di Giosetta Guerra
Una folle giornata che lascia tutti gabbati
Una vivace satira sociale dove tutto è burla tranne
l’amore
Si respira aria barocca nella musica
che Leonardo Leo (rappresentante della scuola napoletana, nato a San Vito dei Normanni il 5 agosto 1694 e morto a Napoli il 31 ottobre 1744) ha composto nel 1740 per L’ambizione delusa, opera buffa scritta da Domenico Canicà e
andata in scena per la prima volta nel 1742 al Teatro Nuovo di Napoli.
Il
testo narra l’ambizione di alcuni popolani arricchiti di diventare nobili, ma i
parvenus tradiscono sempre il loro
background e finiscono per rimanere delusi. Si può immaginare il lavorio
d’intrighi, di travestimenti, d’improvvisazioni che succedono in una sorta di
commedia dell’arte in cui tutto è finto e costruito perfino il linguaggio, che
non riesce ad avere una correttezza formale ma pullula di strafalcioni e spesso
sfocia nel dialetto napoletano più stretto, e alla fine chi vuol gabbare gli
altri rimane egli stesso gabbato. Fortunatamente tutto si conclude in allegria
perché nel frattempo sono nati gli amori che compensano il fallimento
dell’ascesa sociale. Al disvelamento finale tutti gabbati ma felicemente
accoppiati tranne Lupino.
Il
Festival della Valle d’Itria ripropone questa commedia in musica nella
revisione dell’autografo conservato alla biblioteca nazionale di Parigi dalla
musicologa Luisa Cosi.
I
fratelli Lupino e Cintia, contadini arricchiti, si esprimono
in un gramelot pieno di strafalcioni
ed hanno una gestualità forzatamente garbata quindi ridicola, la loro cameriera Delfina è una scaltra cittadina che parla un buon italiano
e aspira a diventar padrona circuendo il finto barone Ciaccone che in realtà è un capraio.
Altri
due fratelli Silvio
e Laurina e Foresto suo segreto
amante sono pastorelli napoletani che parlano toscano. Di Laurina è innamorato anche Lupino.
L’opera
è tipicamente barocca, quindi molto lunga nonostante i tagli, con numerosi e
lunghissimi pezzi chiusi e recitativi anche in dialetto; grande spazio è
riservato alla musica e le difficilissime arie col
da capo, che hanno un’introduzione strumentale tematica, sono equamente divise
tra registri comici, seri e semiseri.
Troppo
bella l’Ouverture per essere
disturbata da persone strane mezze nude o bendate o incappucciate che si
aggirano in palcoscenico e mimano qualcosa anche in controluce.
La compagnia di canto, composta dagli allievi
dell’Acccademia “Rodolfo Celletti”, si è rivelata all’altezza dell’arduo
compito; i giovani artisti sono in grado di esprimere il carattere dei
personaggi e si muovono molto bene in palcoscenico. Sul piano vocale c’è sempre
da migliorare, ma il lavoro fatto è veramente lodevole.
La più completa per vocalità e stile è Federica Carnevale, mezzosoprano en
travesti nel ruolo di Silvio, cui
sono riservate arie di disperazione (“Nasce
da vaghi lumi”) e di dolore (“Dolente
dubbioso”); la cantante ha un
elegante modo di porgere una voce di spessore e di bellissimo colore timbrico,
piena e densa negli affondi e luminosa negli slanci acuti, vibrante (non
vibrata) nei cromatismi dolenti, duttilissima nel canto di coloratura,
melodiosa e sensuale negli
ammorbidimenti, la linea di canto è conforme alla prassi esecutiva barocca. Bravissima.
Bella anche l’altra voce
scura, quella del contralto en
travesti Candida Guida,
che ha il fisico adatto a ricoprire ruoli maschili; valida interprete di Foresto, esibisce un interessante timbro vocale, intensità di suono e d’accento, tecnica
e dizione da perfezionare.
Il
soprano leggero di coloratura Michela Antenucci (Cintia), anche
se un po’ discontinua nello stile, si destreggia bene in tutti
i registri, usa morbidezza del canto e melodiosità nelle arie di dolcezza (“Io son qual peregrina”), abilità vocale
nei virtuosismi, dovrebbe curare il controllo degli acuti e perfezionare la dizione.
Alessia Martino (Laurina
finta baronessa) è mezzosoprano
non troppo esteso con tecnica d’emissione da migliorare, la cameriera Delfina è interpretata dal soprano Filomena Diodati.
Tra
gli uomini veri troneggia per
presenza scenica ed eleganza del gesto il buffo Giampiero Cicino (Ciaccone), un bravo basso parlante che
si esprime in napoletano e nel canto evidenzia
buon volume,
estensione, agilità poco fluide (“Il
cirvello mma fa capotommola”).
Il
tenore Riccardo Gagliardi (Lupino) è il
meno a fuoco nella prassi esecutiva barocca, un po’ sguaiato sopra una musica
raffinata (“Or voi saper volete”),
canta di getto ma si capisce quel che dice.
L’opera
è stata allestita nel piccolo chiostro del convento di San Domenico su una
passerella nuda appoggiata a due pareti dell’edificio, coperte da una serie di
archi chiusi o a specchio, alcuni apribili per i passaggi, altri resi
trasparenti dalle luci per rendere visibili figure o scene retrostanti o
colorati per creare immagini di contrasto. Autore Sergio Mariotti.
I
costumi ideati da Cristina Aceti sono austeri e totalmente neri per Silvio e Foresto, leggeri
e bianchi per le donne e per gli uomini in mutande e canottiera, scintillanti,
pelliccia compresa, per le comparsate di Cinzia
che cambia anche colore dei capelli e si fa chiamare “Madaima”.
E
poi tanti elementi simbolici (veli, maschere, palloncini
gonfiati e lasciati volare, dardi, cuori, specchi, origami,
girandole, finte colombe e finte fiere) per arricchire la scena senza la
pretesa di cercarne un significato, ha spiegato la regista Caterina Panti Liberovici. Se ai
gesti e ai simboli poco chiari, si aggiunge una dizione incomprensibile,
un’opera così lunga rischia di annoiare. E, se il regista ha come fin la
meraviglia, noi preferiamo capire.
Fortunatamente
a tenere desto il piacere dell’ascolto c’è la musica che gioca coi vari
registri (comico, serio, sentimentale). L’orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto, diretta al
cembalo dal maestro Antonio Greco,
riesce a trasmettere l’eleganza della strumentazione, l’ordito armonico e i
colori della partitura.

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