lunedì 10 maggio 2010

La Donna senz’Ombra ossia In amor vince chi dice no - LXXIII Maggio Musicale, Firenze

Foto: Maggio Musicale Fiorentino

Massimo Crispi
L’amor coniugale, si sa, vince ogni sfida. Fidelio über alles. Chissà perché poi è sempre la donna che deve fare i grandi passi, all’uomo ne sono concessi altri e d’altro tipo, più spettacolari, magari, attraverso i quali, alla fine, l’uomo ci fa una figura scenica più evidente, e più comodi. E chissà perché è sempre l’azione della femmina a danneggiare il maschio, vedi il primo di tutti, Adamo, e vedi il povero Imperatore di quest’opera che, a causa della mancata acquisizione dell’ombra da parte dell’Imperatrice, pur non entrandoci nulla lui, si mineralizza, potendo solo roteare gli occhi spiritati nel proprio simulacro di pietra. Strauss e Hofmannstahl non avevano ancora sperimentato l’amor coniugale salvifico nelle loro opere. Anzi, fino ad allora di amor coniugale proprio non ce n’era stato, perbacco, tra Marescialle quasi pedofile, Clitennestre omicide, Arianne piantate in-Nasso, fino a quando i due non decisero di affidarsi a una complicatissima fiaba orientale frullandola col Faust, Le Mille e una Notte e tanti altri ingredienti, simboli, magie, maledizioni, cessioni di anime e di ombre e fuochi e fumi e acque e rocce e metamorfosi e prove e riti, e il cui risultato fu Die Frau ohne Schatten, la Donna senz’ombra. Dire che è una pietanza riuscita fino in fondo può essere azzardato, ma di pasticci riusciti parzialmente eppure innegabili capolavori della storia del teatro musicale ce n’è a bizzeffe: solo il Flauto Magico, pur scombiccheratissimo com’è, per fare un esempio, continua a far felici grandi e piccini.
Il Maggio Musicale Fiorentino alla sua LXXIII edizione ha deciso di aprire il festival proprio con quest’opera magica. E la casualità ha voluto che ci stesse proprio come il cacio sui maccheroni, in una situazione di disordine nazionale dove da un governo cieco e becero piovono, tra le tante cose e i VERI problemi da affrontare, decreti che penalizzano il teatro dell’opera in Italia, cioè proprio uno dei non pochi prodotti (com’è vilain parlare di “prodotti” quando si tratta di così alte manifestazioni dell’ingegno e della cultura, ma questi sono i tempi) culturali D.O.C. o meglio D.O.P. a cui si dovrebbe accordare tutto il possibile, per far sì che nel mondo, e anche nel nostro stesso paese, si parli di più d’opera, di canto, di musica, d’arte. Macchè, un “prodotto” come l’opera è inutile, meglio l’Isola dei Famosi, no? o qualunque altro reality show, a cui magari può capitare di partecipare a ex cantanti lirici in disarmo e in vena di vite campestri (ad alti cachet e obbligati alla continua zizzania delle “nomination”). Uno sciopero dietro l’altro delle nostre fondazioni, dove forse, va detto, ci sarà anche qualcuno che lavora meno degli altri ma molti meno che nelle pubbliche amministrazioni, ha annullato varie rappresentazioni in tutti i teatri, ma le maestranze di Firenze sono state le più dure e hanno continuato a incrociare le braccia e le ugole finché non è intervenuto, deus ex machina, il neosindaco di Firenze Matteo Renzi che con promesse, impegni, richiami, ha ottenuto la cessazione dello sciopero e il ripristino, almeno dell’ultima recita, della Donna senz’ombra nonché il proseguimento del festival.

Coup de théâtre che darà molta popolarità al sindaco, ben giocato. Zubin Mehta, direttore principale del Maggio e dell’opera in questione, ha espresso, prima di iniziare e con frullio di fotografi e telecamere intorno a lui, un duro commento nei confronti del governo e del decreto, appoggiando fortemente i lavoratori del Maggio e questo è assai emblematico. Un autorevole straniero, pur se fiorentino ormai da parecchio (sebbene della lingua di Dante e Petrarca sembra che gli sia rimasto attaccato poco), ha osato attaccare il sovrano assoluto, eletto e, a suo stesso dire, amato dagli italiani (ma chi si loda s’imbroda, si sa), e i decreti dei suoi ministri. Popolo di Pechino, la legge è questa, eccetera. È esemplare, l’intervento di Zubin Mehta, perché forse gli stranieri, così è stato per secoli nella storia, non si può negare, più che gli italiani amano questo paese e ciò che esso rappresenta nel mondo. In Un tè con Mussolini di Zeffirelli si vede come le angliche dame difendessero l’arte toscana avventandosi sui nazisti che volevano abbattere le torri di San Gimignano. Vedremo se ci sarà un tè con Berlusconi cosa succederà e chi si avventerà contro chi. E quando Mehta ha detto che Firenze (ma non solo, diremmo noi l’Italia intera) è una delle capitali della cultura nel mondo ha detto un’enorme verità, che sfugge evidentemente ai ministri - e ministri in senso lato sono anche tutti quegli amministratori e funzionari pubblici, dei Comuni, delle Province, delle Regioni, delegati a occuparsi di Cultura e che invece agiscono a un livello barbarico, spacciando per “cultura” la sagra della frittola o del fungo porcino o la presenza nella piazza del tronista o della velina televisivi di turno - che proprio la Cultura dovrebbero organizzare, tutelare, propagare. E quando Mehta ha aggiunto, dopo che dal pubblico qualcuno gridava “Bondi a casa”, che i nomi sono solo nomi, perché poi i politici passano ma i guai e i pasticci che hanno combinato rimangono e “noi restiamo qui a lavorare coi problemi”, l’ovazione nel grande teatro è stata, giustamente, incontenibile. La storia gliene renderà merito.

Perché mai la Donna senz’ombra sarebbe dunque inconsapevolmente opportuna a quest’occasione? Quando fu concepita dalla coppia Strauss-Hofmannsthal era il 1915, lo scoppio della Grande Guerra, anche se vide la luce in teatro anni dopo. Il concetto centrale dell’opera è che se non c’è una discendenza la vita è inutile, che la coppia può essere solo benedetta dai figli sennò è una sterile istituzione, meglio il libero amore. Accidenti, diremmo noi, è proprio l’opera per il Vaticano e il Movimento per la Vita, dovrebbero rappresentarla a ogni piè sospinto in Sala Nervi e in tutte le parrocchie del reame per educare questa progenie cinica, peccatrice e consumista. Ma il messaggio, uno dei messaggi, che emerge è che è la discendenza che garantisce il passaggio, la continuità, il legame tra il passato, il presente e il futuro. Esattamente quello che passava con una conflagrazione mondiale in quegli anni e quello che stiamo passando in questo momento nella nostra civiltà attuale, a un secolo di distanza. E il decreto ministeriale, penalizzando la perpetuazione della cultura e della musica attraverso le fondazioni, ne sancirebbe di fatto la scomparsa.

Basta così colla demografia, almeno per ora. Parliamo di come si è svolta la serata, iniziata col fervore garibaldino di pubblico e direttore e masse, per dovere di cronaca. Alla demografia torniamo dopo. L’opera di Strauss e Hofmannsthal è davvero mastodontica. Un cast con cinque interpreti principali da vocalità ultrafiabesche come ultrafiabesco è il libretto, più una schiera di seconde parti superiori per numero solo ai parenti di Cio-Cio-San, oltre ai cori, e ai bambini non nati, e alle ancelle e ai ballerini, a un’orchestra che non stava neanche nel golfo mistico e che, per l’occasione, ha straripato nei palchi di proscenio... mica facile metterla in scena. Eppure il miracolo è avvenuto, con dovizia di mezzi, va detto, e con un ottimo risultato sui vari fronti. Quello musicale, innanzi tutto, con delle voci sublimi, iniziando da Barak, Albert Dohmen, superlativo, l’Imperatrice, eccellente Adrianne Pieczonka, la Moglie di Barak, Elena Panktratova, oltre ogni immaginazione, e, in misura minore ma sempre d’alto livello, l’Imperatore, Torsten Kerl, e la Nutrice, Lioba Braun. Enumerare il resto del cast è impossibile per la quantità di ruoli, ma tutti hanno dimostrato gran professionismo. Solo una menzione d’onore, meritata, per il Messaggero, il sontuoso e terribile Samuel Youn. L’orchestra del Maggio, sotto la sapiente guida di Mehta, e forse anche galvanizzata dall’appoggio del pubblico e del direttore, ha suonato in stato di grazia, offrendo un immenso affresco, ora sinfonico ora cameristico, della sterminata partitura straussiana (sembra che contenga 180.000 note), interagendo efficacemente col palcoscenico, con momenti di autentica estasi.
L’impianto scenico e registico, oltre ai ricchi costumi, erano di Yannis Kokkos, che ha risolto i non pochi problemi che pone il continuo via vai dal mondo degli spiriti a quello terreno, con dei piani semoventi e dei siparietti di tulle, all’occasione schermi di proiezione, con degli enormi oblò circolari che a loro volta erano schermi, cortine, porte, finestre, specchi, occhi, sfera di cristallo, centro del vortice che trascina tutto agli inferi, sfruttando l’essenzialità delle linee e la geometria, con splendidi effetti luminosi e video scenografie di Gianni Mantovanini e Eric Duranteau. Citazioni su citazioni, dall’Isola dei Morti di Arnold Böcklin a certe atmosfere alla Gustave Moreau, soprattutto nelle danze, con squarci di luce e d’ombra inquietanti e funzionali all’azione. Talvolta, però e ahimè, alcune scenografie sembravano anche un acquario da ristorante cinese, vedi la foresta rossa. Incidenti di percorso, transeant.

Il gran lavoro di Kokkos non è stato solo a livello scenico, bensì anche quello che il regista ha fatto con gli interpreti che, da parte loro, lo hanno assecondato nella sua visione onirica, affrontando le aspre vocalità scritte da Strauss con un’espressione corporea sempre aderente ed estremamente convincente e, soprattutto, mai inutilmente funambolica come molti altri registi usano fare. Le scene della casa del tintore Barak, assai colorate e vivificate dalla varia umanità che vi risiedeva, erano ben congegnate, quasi minimaliste nell’essenzialità delle linee, articolata come fosse più un villaggio del Maghreb che dell’estremo Oriente, e, nell’immenso spazio del palco del Teatro Comunale, sembrava un borgo intero. Bellissimo e magico, sul preludio orchestrale, l’arrivo in barca nel mondo degli spiriti dell’Imperatrice e della Nutrice, con effetti video d’onde e di nebbie sullo sfondo della porta del tempio, vagamente ispirato a Böcklin.

Il gran monologo dell’Imperatrice nell’ultimo atto, dove rinuncia all’ombra per la cui perdita sono finiti prigionieri, tra i geometrici ruderi della loro casa, la Donna e il tintore, era magistrale, da ogni punto di vista. L’isteria della Moglie di Barak e il suo successivo ridimensionamento nella prigionia sono state espresse benissimo dalla Pankratova, voce robusta e di gran bellezza timbrica. La pazienza, l’amore di Barak, anche nei piccoli gesti di Dohmen, venivano fuori ad ogni momento. I brevi interventi del Falco Rosso (Chen Reiss) erano efficaci e impreziositi da un bel costume e da movimenti ben scelti e la tonante voce del Messaggero di Keikobad, immobile in alto nella scena era davvero impressionante. La malvagità della Nutrice, fattucchiera infingarda e melliflua era resa col giusto piglio dalla Braun, pur se la sua voce era meno sonora nel registro grave, che invece caratterizzerebbe meglio un personaggio così demoniaco.

Però siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, non proprio ortodosso, vogliamo soffermarci su vari punti, riguardanti soprattutto l’opera. Diamo per scontato che essa è davvero un capolavoro, sia per la musica, che di tanto in tanto apparirebbe quasi da colonna sonora cinematografica, sia per il ricchissimo, densissimo, barocco, forse troppo, testo di Hofmannsthal. Eppure ne avevano messi, lui e Strauss, di ornamenti e di abbellimenti nell’ultima comune fatica, Arianna. Qui, di più. L’intreccio è alquanto macchinoso, e se non ci fossero stati i sopratitoli sarebbe stato di difficile comprensione per chi tedesco non è. Ma poi, anche per chi tedesco è, nel parossismo del canto straussiano molto spesso i versi non si capiscono, figuriamoci in una scrittura così densa come questa. La vicenda, questo continuo andare e venire dal mondo degli spiriti alla Terra, questo insistere sulla necessità della progenie per la coppia, quasi che far sesso senza la procreazione sia poco edificante, è un po’ bacchettona, diciamolo pure. Perfino le sentinelle della città, nel loro canto notturno, esortano gli sposi a fare il loro dovere dandoci dentro e, con una metafora, di mettere al mondo tanti bei marmocchi. E si sentono pure le voci dei bambini non nati, petulanti assai, quasi che fossero stati scritturati dagli antiabortisti per cantare slogan di propaganda demografica. Anche il fatto che la housewife, desperate nonché parecchio scontenta, che si fa un mazzo così per la casa e per il lavoro senz’alcuna gratificazione, e che poi viene sempre tormentata dal marito, bravissima persona, per carità, che vuole però avere una schiera di bambini (che inevitabilmente sarebbero finiti sfruttati nella sua tintoria fin dalla più tenera età, altro che lezioni di danza e di pianoforte e di francese, specialmente in un villaggio orientale), che non possa manco avere una fantasia extraconiugale con un giovane e prestante maschio biancovestito, bello come un tronista della De Filippi, fattole cascare lì per incantesimo o anche solo per ipnosi dalla Nutrice/fintaserva, col quale peraltro non si tocca neanche di striscio, mi sembra davvero un po’ troppo. Addirittura la poveretta si sente in colpa per averlo solo pensato, quell’adulterio incompiuto, e la rinuncia all’ombra/anima/fertilità, il patto faustiano colla strega Nutrice, risulta, alla fine, assolutamente inutile perché non ha prodotto nessuno dei benefici millantati dall’imbonitrice un po’ ciarlatana, una sorta di Wanna Marchi incrociata col Mago Absea, bensì il crollo della coppia dei tintori e della casa e dei cognati e di tutto il resto, giù, nell’avello dell’escuriale.
Effatevenacànna! suggeriva la Marchesini tempo addietro. In fondo, nelle favole, almeno un po’ di sesso c’è, celato o rivelato, e non fa male a nessuno! Cosa pensate che facciano la Bella e la Bestia, i centrini? Che discutano su quale sia il terzo affluente di destra del Danubio? Quattro salti a piedi nudi nel parco? L’intoccabilità e la sacralità della coppia eterosessuale, colla benedizione dei figli, etc etc. ci ha un po’ rotto, si può dire? I quali figli (ci si pensa ogni tanto?) si potrebbero anche trasformare in mostri parricidi e matricidi, o diventare dei teppisti da periferia o da quartiere bene. Erika e Omar. Caino. Pietro Maso. Amanda... Qui, quelli ancora non nati cantano, addirittura, senza annunciare nessuna impresa futura, ma solo reclamando il loro diritto all’esistenza, e che vocine. Happy end con teatro impazzito.

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