MACERATA – SFERISTERIO OPERA FESTIVAL 2013
(sabato 20 luglio 2013, prima)
Servizio di Giosetta Guerra
Il fuoco avvampa e stride la vampa
in cupa atmosfera
Simone Piazzola onora
la categoria dei baritoni verdiani.
Con una scenografia
minimalista, in linea con la crisi economica italiana, con poco dispendio di
mezzi, di luci e di colori, l’allestimento de Il Trovatore ha
valorizzato lo spazio naturale dello Sferisterio ed ha creato le dovute
suggestioni di questa truce vicenda, che comunque, senza la definizione degli
ambienti richiesti dal libretto, è restata di difficile comprensione per i
neofiti.
Il testo scritto sul muro,
sia a destra che a sinistra, aiutava a capire cosa stava avvenendo, ma uno
spettatore mi ha fatto rilevare che la proiezione così alta e laterale distoglieva
dalla scena, anche se da vedere non c’era poi molto.
Due strette e lunghe tavole
nere, col bordo frontale illuminato, occupavano il lunghissimo palcoscenico,
sul lato sinistro un rogo quasi costantemente acceso, accanto un’alta torretta
quadrangolare per la prigione della zingara e del Trovatore, botole
sull’impiantito, fuochi repentini accesi da una miccia sul muro dello
Sferisterio, dove erano fissate sette enormi plafoniere moderne con luce al
neon che al bisogno si accendeva o lampeggiava o si espandeva.
L’azione si svolgeva
accanto, davanti, dietro o sopra queste tavole, il cui bordo a volte si tingeva
di rosso, luce rossa e fiammate anche in cima alla torretta (luogo di tortura e
sofferenza), alla base del muro per staccare le figure nere dei coristi con la
faccia cosparsa di una polvere fluorescente che dava al volto un rilievo
spettrale e su tutto il muro nell’epilogo. Simboli dominanti e ricorrenti: una
corda rossa che usciva dalla torretta (forse simbolo di schiavitù) srotolata e
tirata da persone o avviluppata, una
donna scarmigliata e bambino con una corta tunica bruciacchiata che si aggiravano
per la scena (fantasmi dei morti), la falce fienaia (quella della morte) con
lama fosforescente, una volta portata dal bambino e in mano ai due contendenti, Manrico e il
Conte di luna, in gesto di sfida, anche sull’Ouverture, mentre gli armigeri
arrivavano dai lati gattonando e, naturalmente, il fuoco sacrificale. Azucena,
Leonora e Ines eran vestite allo stesso modo.

La scena era buia per la
notte, ma era buio anche l’accampamento degli zingari e tutto il resto. La regia era di Francisco
Negrin, le scene e i costumi erano opera di Louis Desiré e il disegno luci di Bruno Poet.
Il coro ha giocato un ruolo
importante sul piano scenografico, si è mosso con stile e con padronanza
scenica, ha creato suggestivi tableaux vivants, ma soprattutto ha cantato magnificamente, come sempre
fa il Coro Lirico Marchigiano “V.
Bellini”, preparato da David
Crescenzi. Ha ben eseguito il canto sillabato e ritmato, il canto morbido e
i suoni sommessi del Miserere.
I
protagonisti delle opere liriche del periodo romantico sono giovani ed eroici,
ma i compositori hanno scritto per loro pagine che richiedono una vocalità
importante, per cui la difficoltà maggiore per gli interpreti è combinare due
elementi fondamentali: credibilità scenica e grande voce.
Il
trovatore poi, oltre ad uno
spessore musicale, ha uno spessore psicologico.
La musica scaturisce da
un’inventiva melodica che si scioglie in un canto appassionato ed eroico, fino
a scoppiare in cabalette ardite.
Complessivamente il cast
ascoltato a Macerata era buono, con punte d’eccellenza per Simone Piazzola nel ruolo del conte di Luna e qualche perplessità
per Aquiles Machado in quello di Manrico il trovatore.
Simone Piazzola è un Conte di Luna da
manuale. Il baritono emerge su tutti per la bellezza della voce e del modo di
porgere, una voce d’ampio respiro, estesa, autorevole e nobile, gestita sul
fiato con naturalezza d’emissione sia nel canto legato sia in quello mosso
delle cabalette e nelle impennate acute, il volume viene dosato dall’uso della
messa di voce, dalla tenuta del fiato e dalla
morbidezza degli attacchi e della linea di canto; l’armoniosità e la musicalità
carezzevole del flusso vocale, la nobiltà dell’accento, l’intensità
dell’interpretazione creano un intimo legame tra il cantante e gli ascoltatori.
Aquiles Machado (Manrico) ha un bel timbro
tenorile che potrebbe avere anche una tinta eroica nelle parti centrali, ma i
suoni acuti sono instabili, perché il tenore non canta sul fiato ma di fibra
perciò non sfuma e “balla” in zona acuta (“Ah!
Sì, ben mio”), quando spinge vacilla e non si espande neanche nella famosa pira, che resta anonima.

Il mezzosoprano Enkekejda Shkossa (Azucena) ha voce dal suono accattivante che si espande in arena, è luminoso
nell’acuto, cupo e a volte cavernoso nel grave (“Stride la vampa”), brava interprete, sa cantare anche con
morbidezza e modula una voce potente con diversi colori piegandola al senso
della frase. Personaggio credibile, ma lasciato in ombra dalla regia.
Luciano Montanaro (Ferrando), ha voce sonora e
corposa di basso che usa correttamente (“Abbietta
zingara”), ma un pizzico di grinta gioverebbe all’interpretazione e ai gruppetti
del canto di coloratura.
Rosanna Lo Greco (Ines) dovrebbe aprire un po’
i suoni.
Enrico Cossutta era Ruiz e Alessandro Pucci un messo.
L’orchestra regionale delle
Marche, diretta da Paolo Arrivabeni,
ha assecondato e sostenuto le voci e ha dipinto i colori della partitura con
vibrante partecipazione.
Nessun commento:
Posta un commento