mercoledì 19 gennaio 2011









In fondo siamo tutti marionette


Teatro Novelli di Rimini

(9 gennaio 2011)


IL MALATO IMMAGINARIO di Molière

diretto e interpretato da GABRIELE LAVIA.


Coproduzione del Teatro Stabile dell'Umbria e della Compagnia Lavia Anagni.


Recensione di Giosetta Guerra


Scenografia minimalista di Alessandro Camera: solo un letto bianco da ospedale sovrastato da una luce e una scrivania bianca con abat-jour nel vasto palcoscenico di un grigiore opprimente.

La voce del protagonista rimbalza da un registratore, dove vengono fissate le terapie dei medici, ai soliloqui disperati di uomo malato, che lo è veramente, in quanto schiavo del suo immaginario…malato. Una deambulazione insicura lo porta freneticamente dal letto alla scrivania in preda a paure incontrollabili e devastanti, il passo diventa più veloce quando, spinto dai dolori intestinali, corre per andare al bagno. Va dietro le quinte, accende una luce e il fondale si illumina per mostrare attraverso un velatino una salle de bain completa di sanitari, con le pareti a scacchi bianchi e marrone, dove l’uomo passa gran parte del suo tempo ad evacuare i veleni del suo immaginario, resi tangibili dai clisteri ordinati dai medici. Vi ricordate il film con Alberto Sordi?

La scena si popola anche di altri personaggi che fanno parte dell’entourage dell’ipocondriaco Argante: la bellissima e giovane seconda moglie Belinda, opportunista e fedifraga, prodiga di falsi baci e di mielose moine, che gli dà un’illusoria felicità, ma che lo ingozza di medicine e lo domina come faceva Lady Macbeth (forse interpretata dalla stessa attrice) col suo re nel Macbeth di Lavia, la bella e frizzante figlia Angelica segretamente innamorata di Cleante (entrambi con linguaggio e gestualità attuali tra il rap e il punk), che il padre vorrebbe invece sposata ad un orrendo e stupido dottorino fresco di laurea, per poter avere consulti gratuiti, l’agitata ma assennata serva Antonietta, Beraldo il fratello di Argante, che cerca in ogni modo di convincere il fratello che la sua malattia è solo una sua psicosi, alimentata a scopo di lucro dai medici e dai farmacisti e dalla sua stessa moglie; poi c’è la schiera di medici, notai, avvocati, tutti presentati come viscidi avvoltoi.

Belinda è interpretata splendidamente da una sexy e procace Giulia Galiani in guépière o in fronzolosi abiti succinti; nel ruolo di Angelica in tutù bianco debutta la figlia di Lavia, Lucia Lavia, una scintillante ragazza dai lunghi capelli biondi inanellati, già perfettamente padrona del palcoscenico, Cleante è in bell’Andrea Macaluso, Antonietta (che si traveste anche da grande luminare della medicina russa per sviare Argante dai suoi oppressori) è la brava e dinamica Barbara Begala e il saggio Beraldo è un convincente Gianni De Lellis.

Teatralmente ineccepibile anche il corpo medico, che mi ha riportato in mente la schiera dei medici di Pinocchio, formato da Mauro Mandolini (il Professor Purgone, medico di Argante), Pietro Biondi (l'impeccabile Dottor Diarreus padre, con una crestina rossa), Michele Demaria (l’orripilante e magniloquente Dottor Tommaso Diarreus figlio, pretendente di Angelica), Vittorio Vannutelli (il farmacista Dottor Fetus) e anche Giorgio Crisafi nel ruolo del mellifluo notaio Buonafede. Mostruosamente caricaturali e ripugnanti.

La satira che notoriamente Molière riservava ai medici del tempo qui prende corpo in esseri grotteschi, vestiti di nero, con prominenti epe rotonde, spalle rialzate sul retro a mo’ di gobba, lunghe ed esili gambe che terminano dentro ridicole scarpe col tacco, con gestualità ampollosa e linguaggio infarcito di latinismi.

Argante invece indossa una lunga vestaglia di velluto marrone sopra il pigiama ed una papalina nera, sia perché deve sempre stare in casa visto che è malato, sia per la comodità di tirasi giù i pantaloni per il clistere e per l’evacuazione (cose che Lavia fa veramente in scena).

Non manca il canto in questo carosello di personaggi: Pulcinella canta dalla platea accompagnandosi con la chitarra, Cleante, nelle antiche vesti del finto supplente del maestro di musica di Angelica (ci viene in mente Il Barbiere di Siviglia di Rossini) e la stessa Angelica sono due rocchettari che cantano muovendosi a scatti.

I costumi sono di Andrea Viotti.

La verità viene fuori alla fine, quando Argante, fingendosi morto su suggerimento del fratello e della cameriera (gli mettono accanto anche quattro candelieri come a Scarpia in Tosca di Puccini), scopre i veri sentimenti di coloro che lo circondano. Non ci ricorda Gianni Schicchi di Puccini? E allora crollano tutti i tabù, tutte le finzioni, crollano anche le quinte e lasciano scoperto un popolo di marionette ferme ed immobili come le statue.

Una regia così incisiva, così dettagliata, una lettura così satiricamente amara non poteva che portare la firma del grande Gabriele Lavia, la cui arte travalica le menti comuni, di lui come di Shakespeare non si può perdere alcun passaggio.

Anche come interprete di Argante è talmente vero che non riesci più a distinguere dove finisce il personaggio e dove comincia l’uomo, l’osmosi è così profonda che, quando Argante/Gabriele piange la sua permanente solitudine e dal palcoscenico, guardandosi intorno, chiede “C’è nessuno che mi mette a letto?”, io ho sentito due volte l’impulso di correre verso di lui e di rispondergli “Ci sono iiioooooo”.

Il ritmo della recitazione, l’aderenza dell’accento agli stati d’animo, la proprietà del gesto e della parola, la naturalezza d’espressione, la padronanza assoluta del palcoscenico, guidati da una minuziosa conoscenza del testo e della drammaturgia in genere (e chi più ne ha più ne metta) sono qualità tipiche del grande attore; se ci aggiungiamo la sua abilità come regista, dovremo presto nominarlo ufficialmente “Re del palcoscenico”.

Uno spettacolo da vedere e da rivedere.

Nessun commento:

Posta un commento