Fano, Teatro della Fortuna
Stagione di prosa 2017-18
L’ORA DI RICEVIMENTO (banlieue)
di Stefano
Massini
(11 ottobre 2017)
Recensione di Giosetta Guerra
“Viviamo in tempi infami”
diceva Verlaine…
diceva Verlaine…
…E oggi?...
Vocio
e musica invadono un’aula scolastica tramite un altoparlante. Una scenografia
minimalista colloca solo una vecchia cattedra al centro di un’aula grigia e squallida
dalle pareti fatiscenti. Un cinismo intriso di tristezza pervade l’anima di Ardeche, professore di materie letterarie di
una scuola media francese, sita nella multietnica banlieue di Les Izards, ai
margini dell’area metropolitana di Tolosa in Francia. Lui tenta invano di
parlare agli alunni dei suoi poeti, ma si rende conto che deve affrontare
problemi esistenziali ben più gravi; la speranza di migliorare la situazione è
ormai perduta, ma non l’acume e l’ironia.
Fabrizio Bentivoglio, un bell’uomo di mezza età
coi capelli bianchi e
abbigliamento casual, ha l’aspetto del professore di provincia ed è proprio lui
che impersona il professor Ardeche con naturalezza e fluidità d’eloquio.
Solo, accanto alla cattedra, fa un’anamnesi
accurata ed ironica delle peculiarità caratteriali dei suoi tredici alunni extracomunitari,
che lui chiama con soprannomi ad hoc basandosi sul loro comportamento: il “raffreddato”, o l’eterno freddoloso, che sceglie il banco vicino al
termosifone, “panorama”, il romantico
con lo sguardo lontano che si siede accanto alla finestra “con vista sul mondo”,
il “boss”, sostenuto dal “bodyguard”, la “missionaria” a difesa dei più deboli, l’“invisibile”, che rimane silenzioso in disparte per non farsi notare
e via dicendo. Questa
prima parte un po’ monotona è recitata con toni bassi e pacati, sì da rendere
difficile l’ascolto da lontano. Comunque la presentazione è così ricca di dettagli che
noi ce li vediamo tutti davanti, anche se in realtà gli alunni non compaiono
mai in scena.
Entrano
in scena invece i loro genitori, appartenenti ad etnie diverse, nell’ora di
ricevimento con gl’insegnanti. Giusta quindi la scelta registica di Michele
Placido di passare dal grigiore e dal silenzio iniziali al cromatismo dei
costumi e alla movimentazione della scena.
Purtroppo
i quadri con gli ingressi dei vari genitori sono costantemente separati dal
buio in palcoscenico, che interrompe la continuità dell’azione. Curate invece
le dinamiche interpersonali, appropriata la differenziazione della gestualità e
del modo di parlare e di porsi dei diversi personaggi. Gli attori che
interpretano i genitori sono talmente presi dal loro ruolo da sembrare autentici. In realtà alcuni sono veri extracomunitari,
che fanno parte della Compagnia dei giovani del Teatro Stabile dell’Umbria, produttore della pièce, agiscono e si
vestono secondo i loro usi e costumi e parlano anche la loro lingua d’origine.
Giordano Agrusta è un padre rozzo e maleducato che
mangia un panino mentre interloquisce col professore, Arianna Ancarani è una mamma araba col burka nero, Carolina Balucani parla spagnolo, Rabii Brahim è un focoso padre tunisino
e parla arabo, Vittoria Corallo è la
mamma araba,
Poi c’è il
professore di matematica di un candore disarmante, interpretato alla
Il tema di questa commedia a sfondo drammatico è la
denuncia dello scontro sociale, culturale e religioso tra famiglie
straniere e istituzioni pubbliche, che dimostra l’utopia dell’integrazione.
Culture e religioni differenti non possono convivere se non col rispetto
reciproco e con l’accettazione da parte degli immigrati dei principi basilari
di convivenza, quali la lingua ufficiale e le regole scolastiche. Il tunisino
che si rifiuta di parlare francese, ma parla arabo e si fa tradurre dalla
moglie, crea un muro invalicabile, le richieste assurde di tredici menù diversi
per i tredici alunni della classe rende impossibile qualsiasi tipo di
integrazione, anzi diventa una pretesa inaccettabile e quindi motivo di
scontro.
Se ci aggiungiamo le problematiche tipiche dei ragazzi “difficili”, che
hanno bisogno di metodi scolastici personalizzati, con alle spalle famiglie
difficili, che annullano il lavoro dell’insegnante, si capisce che
l’integrazione resta e sempre sarà un’utopia. A questa conclusione giunge il
professore che nasconde la sua frustrazione dietro l’ironia e la rassegnata
accettazione della realtà.
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