martedì 25 ottobre 2011


Fano Teatro della Fortuna


Stagione di prosa 2011-12


Il piacere dell'onestà

Un elegante spettacolo di qualità

(commedia in tre atti di Luigi Pirandello, composta nel 1917 e rappresentata la prima volta nello stesso anno al Teatro Carignano di Torino con protagonisti Ruggero Ruggeri e Vera Vergani)


Servizio di Giosetta Guerra


L’intelligenza e la poliedricità artistica di Leo Gullotta, allievo a suo tempo di Turi Ferro e Salvo Randone, permettono all’attore

di spaziare nei generi più svariati di spettacolo sia di stampo comico che di stampo serio, dal cinema alla televisione al teatro al varietà, come i grandi attori di un tempo.

Ne Il piacere dell'onestà lo vediamo cimentarsi in un ruolo emblematico che interroga lo spettatore sul valore dell’onestà. Baldovino, uomo fallito e di dubbia moralità, diventa il simbolo dell’onestà stessa accettando di sposare per denaro una ragazza madre, Angela, amante del marchese Colli, uomo sposato. La rispettabilità della famiglia dabbene è così salvata, ma Baldovino intende rispettare fino in fondo il compito di uomo onesto che gli altri pensavano di affibbiargli solo in apparenza. “Per finta sposo una donna, per davvero sposo l'onestà”, afferma Baldovino. Così, indossando la maschera di uomo onesto, finisce per smascherare la disonestà di chi lo circonda, rendendo difficile la vita dei suoi “datori di lavoro” e interrompendo quella spirale di ipocrisie che li aveva imbrigliati.

Questa critica alla borghesia benpensante, ancora di grande attualità, è una denuncia di quello stile di vita per il quale l’apparire conta più dell’essere. E il regista Fabio Grossi, mettendo in palcoscenico una casetta di vetro, linda e

trasparente, girevole e quindi visibile da tutte le angolazioni, in mezzo alla natura incontaminata, con pochi arredi ma in stile, potrebbe voler significare due cose: 1) le persone che vi abitano vogliono mostrare agli altri un’esistenza patinata e artificiale, 2) l’onestà rende trasparente l’animo degli uomini.

Io opto per la seconda.

La regia sottolinea i caratteri: agitata, ipercinetica e logorroica la marchesa coi capelli bianchi, in preda al nervosismo il marchese, piagnucolosa e matteggiante Agata coi capelli rossi,

certe immobilità dei personaggi aumentano la tensione dell’attesa, equilibrato ed irremovibile Baldovino, che si lancia in un’elaborata disquisizione sul valore della purezza e dell’onestà, è un filosofeggiare che disorienta il marchese che non ci capisce niente.

A completare il clima di sospensione e d’inquietudine una musica straniante scelta da Germano Mazzocchetti e luci di forte impatto, ora dall’alto ora dall’interno di Valerio Tiberi; c’è anche un coro di bambini.

Le scene sono impreziosite da una fantasiosa danza delle stelle per raffigurare la notte e da una calda pioggia di foglie rosso mattone sul prato per figurar l’autunno.

I bravi attori Cloris Brosca, Martino Duane, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi, Antonio Fermi, Federico Mancini, Vincenzo Versari e il protagonista stesso vestono abiti di foggia classica rigorosamente in nero e bianco o in marrone. Scene e costumi di Luigi Perego.

La bravura di Leo Gullotta, che recita con dizione chiarissima, accento eloquente, a volte in modo compassato, a volte in modo sommesso e con le dovute pause, con un linguaggio talora asfissiante quando parla di un’onestà fittizia, con un ritmo concitato fino alle lacrime quando il personaggio filosofeggiante diviene personaggio drammatico, capta l’attenzione del pubblico che applaude calorosamente sulla musica di un carillon che in un’atmosfera tragica chiude lo spettacolo.

lunedì 24 ottobre 2011

44^ Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di Jesi

Uno sfizioso Frate 'Nnamorato
di Giovan Battista Pergolesi

Servizio di Giosetta Guerra

JESI (An) - Teatro Pergolesi di Jesi, domenica 2 ottobre 2011. Questa commedia in
musica “in lingua napoletana” è un leggiadro affresco della società partenopea del XVIII
secolo e ruota attorno ad una serie di matrimoni, combinati da Carlo ricco borghese
romano e da Marcaniello attempato popolano napoletano, senza consultare le donne
coinvolte. Il regista scenografo argentino Willy Landin, Director del Centro de
Experimentación del Teatro Colón di Buenos Aires e dal 1995 collaboratore di Hugo de
Ana, con questo nuovo allestimento trasporta la vicenda agli anni quaranta del secolo
scorso, di cui riporta con didascalica minuziosità lo stile sia nell’arredamento delle
stanze che si vedono dalle finestre/balcone del palazzo (il paralume della cucina e la
carta da parati che si intravedono quando negli ambienti interni si accendono le luci, i
vasi di fiori e le gabbiette degli uccelli sui terrazzini a sbalzo con le ringhiere di ferro, le lenzuola stese), sia nell’abbigliamento creato da Elena Cicorella (il vestito a giacca degli uomini - azzurro per Pietro, marrone per Carlo, nero per Marcaniello, beige per Ascanio -, e per le donne vestagliette da casa e parananza, sandali con la zeppa di sughero, borsetta sotto braccio, gonna svasata con camicetta e giacchettina avvitata, bigodini e acconciature coi capelli arrotolati in un lungo boccolo ai contorni del viso (anche mia madre in gioventù si pettinava come Nina e Nena) e poi la mitica vespa brevettata nel 1946, un bar col bancone tipico arredato con tavoli tondi dalla piana di marmo e sedie in ferro battuto e camerieri con lunghi grembiuli bianchi).

La regia è sfiziosa ed originale, la gestualità, che in alcune occasioni diventa gesticolazione, rispecchia l’estrazione sociale dei personaggi, così Don Carlo ha modi spropositatamente cerimoniosi e Marcaniello una componente mimica molto accentuata, Ascanio è l’amoroso indeciso che sospira, tra le donne le due servette Vannella e Cardella sono le più scatenate,
Luggrezia è la più malinconica, le due sorelle Nina e Nena le più determinate. I giovani artisti del cast jesino, guidati dal bravo regista argentino, hanno avuto la capacità di dare brio e scorrevolezza ad una commedia che ha una trama leggera, una progressione narrativa lenta, una
lingua pressoché incomprensibile (benvenuti i sopratitoli per il dialetto napoletano antico). Tuttavia è la musica l’elemento dinamico di base che segna scansioni e ritmi. E, per realizzare la flessibilità dell’articolazione musicale e la mutevolezza del divenire degli eventi, senza calcare la mano sugli elementi di stampo comico o popolaresco, l’ensemble Europa Galante, che suona su strumenti d’epoca, si è avvalso della collaudata esperienza del maestro Fabio Biondi, direttore, violino e viola d’amore. Bravi, da premiare.
Sul piano vocale, pur non essendoci il cast stellare de Lo frate al Teatro alla Scala nel dicembre del 1989 con la direzione di Riccardo Muti, giovani bravi cantanti-attori, alcuni dei quali con già alle spalle una carriera internazionale di grande prestigio, hanno realizzato uno spettacolo gradevolissimo e di qualità, in linea con l’operato del Teatro Pergolesi di Jesi. Spicca, naturalmente, l’imponenza scenica e vocale del baritono Nicola Alaimo, premio Tiberini d’oro 2011, nel ruolo del vecchio Marcaniello, che sulla carta è segnato come basso, ma, a parte che i registri vocali di oggi si discostano da quelli d’un tempo per via del cambiamento della frequenza del diapason (così mi spiegavano a teatro), Alaimo ha le qualità per interpretare egregiamente
anche i ruoli di basso buffo. Dotato di una cassa armonica poderosa, esibisce già dalla prima aria mossa in orchestra “Veda ossorìa” una vocalità di grande pregio per spessore, ampiezza, estensione paurosa, generosità del suono, forse sprecata per questo ruolo versato alla comicità, che ad Alaimo comunque non manca e che lui, fortemente caratterizzato (una deambulazione precaria, difficoltà a rialzarsi), accentua con arguzia. Anche Don Pietro è segnato come basso virtuoso con estensione acuta, ma Filippo Morace ha voce baritonale piuttosto chiara e con carenza di gravi, ma è bravissimo in scena nel delineare un personaggio sbruffone e donnaiolo. E così Ascanio, Nina e Luggrezia, scritti per contralto, hanno qui la voce di due soprani Elena Belfiore e Jurgita Adamonyte e di un mezzosoprano Barbara Di Castri. Elena Belfiore, che entra
mirabilmente nei panni maschili, è un soprano ben timbrato dalla voce calda ed armoniosa, che si piega alle modulazioni del canto patetico e si lancia in acuti dolcissimi. Jurgita Adamonyte si muove bene vocalmente in tutta la gamma, è duttile nel canto sbalzato, ha luminosità in zona acuta e consistenza nei suoni medi e gravi. Barbara Di Castri ha voce di bel colore ma inficiata da un certo vibrato, si piega con destrezza alla leggerezza della zona acuta, alla rotondità dei suoni medi e alla densità dei suoni gravi. Il soprano Patrizia Biccirè (Nena) sa cantare ed ha facilità di espandersi in zona acuta, a lei è affidata una grande aria di bravura con flauto obbligato nel 3° atto, che esegue con voce melodiosa; il soprano Laura Cherici (Vannella) ha poca voce e con vibrato, ma è brava nel canto veloce e d’agilità, inoltre ha temperamento e vivacità. Cardella, segnata come soprano, è invece qui il mezzosoprano Rosa Bove che ha suoni intubati e voce di poco spessore che non passa l’orchestra, ma vivacità interpretativa; David Alegret (Carlo) è un tenore di voce chiara ed estesa un po’ monocorde. Lo spettacolo ha ricevuto il gradimento del pubblico.



L'Olimpiade di Metastasio musicata da Pergolesi nel teatro Moriconi di Jesi
Bella prova di belcanto di tutti gli artisti

Servizio di Giosetta Guerra

JESI (An) – Nella ex-chiesa di San Floriano a Jesi, ribattezzata Teatro V. Moriconi, viene allestita, nella revisione critica di Francesco Degrada e Claudio Toscani, L’Olimpiade, melodramma in tre atti di Pietro Metastasio, musicato da Giovanni Battista Pergolesi nel 1735. Sorprende come gli organizzatori del Festival Pergolesi Spontini di Jesi riescano a trovare voci specialistiche per il canto barocco tra giovani per lo più stranieri che in Italia non hanno ancora rinomanza. Nel cast de L’Olimpiade infatti c’era solo un artista noto, il tenore Raul Gimenez, che mantiene autorevolezza vocale e scenica e buone sonorità anche nei recitativi, pur non risultando il migliore della serata; nel ruolo di Clistene, re di Sicione e padre di Aristea, il cantante argentino esibisce una voce robusta e timbrata con note piuttosto baritonali (“Non so donde viene”) e con estensione e agilità diminuite rispetto a un tempo, comunque mi ha fatto molto piacere ritrovarlo, dopo gli allori dei primi anni del Rossini Opera Festival. Conoscevo anche Antonio Lozano, che, nel ruolo di Aminta aio di Licida, ho trovato migliorato rispetto alla produzione jesina de Il prigionier superbo di tre anni fa: bella figura di giovane aristocratico, il tenore ha un bel modo di porgere (“Io nel tuo caso”), tiene agilità larghe su musica a tempo di danza nell’aria “Siam navi all’onda algenti”, la voce di bel timbro e dal suono robusto è usata in modo differenziato. Bello e bravo.

Straordinarie le due donne en travesti. Il soprano di coloratura Sofia Soloviy (Megacle amante di Aristea e amico di Licida) ha voce poderosa con belle incursioni nel registro mezzosopranile, impostazione perfetta e splendido modo di porgere con rotondità del suono, ricchezza di armonici, affondi naturali, l’interpretazione si fa struggente nell’aria di addio all’amata (“Se cerca, se dice”), mezze voci sonore e delicate nelle modulazioni patetiche, voce estesissima, scintillante e duttile nelle arie di sbalzo, come nella virtuosistica aria di tempesta “Torbido in volto e nero”, fitta di vocalizzi, salti di ottave, picchiettati e ribattuti, con la sezione violini dislocata in alto su un terrazzino; il grintoso mezzosoprano di coloratura Jennifer Rivera (principe Licida, innamorato di Aristea, creduto figlio del re di Creta e riconosciuto alla fine gemello di Aristea e quindi figlio di Clistene), dotato di voce dal bel colore bruno, potente, estesa, agile e timbrata, produce gravi naturali e acuti scintillanti nel pezzo di bravura “Quel destrier che all’albergo è vicino”, si muove con destrezza nell’aria “Gemo in un punto, e fremo”, molto bassa, costellata di fitti virtuosismi ed incursioni in zona acuta, accompagnata dal tutto orchestrale col brillio della tromba, pregevoli sono le mezze voci e i suoni a bocca chiusa. Il mezzosoprano emerge per destrezza della condotta vocale.

Brave anche le due donne nei ruoli femminili. Il soprano cubano Yetzabel Arias Fernandez (Argene, dama cretese amante di Licida che si presenta sotto le mentite spoglie di una pastorella) esibisce un bel mezzo vocale, ben proiettato e bene impostato con belle note contraltili (“O care selve o cara”), bravissima nel modulare una voce importante, presenta suoni rotondi e incisività d’accento. L’altro soprano russo Lyubov Petrova (Aristea figlia di Clistene e amante di Megacle), ha voce luminosa e pulita, canta bene e fa uso di messa di voce e filati per le arie patetiche, nell’aria di furore “Tu me da me dividi” molto agitata in orchestra con arcate dense dei violoncelli e dei contrabbassi la voce è estesa, ampia, con modulazioni dal dolce al furente. Nel duetto Aristea-Megacle “Nei giorni tuoi felici” le due cantanti conoscono l’arte di modulare la voce ai fini esecutivi ed espressivi. Il mezzosoprano abruzzese Milena Storti, in abiti femminili pur nel ruolo maschile di Alcandro confidente di Clistene, esibisce voce scura di bel colore, con suoni chiusi nei gravi (“Apportator son io”) ed energia nel salire all’acuto (“L’infelice in questo stato”).
Originale per chi non l’aveva ancora vista, ma comunque azzeccata per l’ambiente e molto raffinata, l’ambientazione ideata dallo scenografo Luigi Scoglio: una passerella a forma di croce divide la chiesa in quattro settori occupati dal pubblico, l’orchestra è posizionata sull’altare e giganteschi palloni bianchi luminescenti di diverse dimensioni occupano la cupola. Sulla passerella e sui balconcini del piano superiore della ex chiesa si svolge l’azione, che il regista Italo Nunziata sviluppa non in modo realistico, ma simbolico e stilizzato, contribuendo a restituire un’atmosfera di aerea eleganza; le luci viola psichedeliche di Patrik Latronica avvolgono l’ambiente in un clima di mistero creando una certa suggestione. Di vaga reminiscenza settecentesca gli eleganti atemporali costumi (rossi come i capelli per i due amanti contendenti, viola per il padre, cangianti con strascico per le donne che sono tutte bionde e grandi mantelli per gli uomini), disegnati da Ruggero Vitrani, che, per acuire il mistero, introduce i personaggi col volto nascosto dietro maschere bianche, maschere che i protagonisti rimuovono in scena e che i figuranti, vestiti di bianco e con gestualità lenta e misurata, impegnati anche in suggestivi tableaux vivants e in movenze di danza, mantengono fino alla fine; il taglio dei capelli è moderno, corto e sparato, con extensions per le donne.
L’Accademia Montis Regalis, formata da 26 elementi, con strumenti originali, tra cui due clavicembali, due tiorbe e un’arpa antica, diretta dallo specialista di musica barocca Alessandro De Marchi, anche maestro al cembalo, entra con grande competenza nella spumeggiante tempesta degli affetti e nella raffinata, virtuosistica e vertiginosa scrittura della partitura pergolesiana. Il godimento sarebbe stato assoluto se non ci fosse stato quel caldo soffocante, che mi faceva provar
pena per gli artisti, soprattutto per quelli totalmente coperti da abiti maschili, mantello compreso.


venerdì 21 ottobre 2011

Parma - Festival Verdi 2011

di Giosetta Guerra

10 ottobre: Buon Compleanno Peppino!

Il 10 ottobre 1813 nasceva Giuseppe Verdi e anche quest’anno la mattina del 10 ottobre 2011 alle ore 11.00 è stata celebrata una cerimonia per il 198°anniversario della sua nascita davanti al monumento del compositore situato a Parma in Piazza della Pace vicino al Piazzale della Pilotta.

Per il tradizionale omaggio la città di Parma e il Gruppo appassionati verdiani “Club dei 27” hanno deposto fiori in omaggio al Maestro di Busseto. I rappresentanti delle istituzioni cittadine e dell’Amministrazione Comunale, il sovrintendente del Teatro Regio di Parma Mauro Meli, Andrea Rinaldi della Corale Verdi, i rappresentanti delle associazioni musicali cittadine, l’Istituto nazionale di studi verdiani, l’Istituzione Casa della Musica, il Conservatorio di Musica “Arrigo Boito” di Parma hanno espresso il loro omaggio a parole, il Coro del Teatro Regio di Parma e la Corale Giuseppe Verdi guidati da Martino Faggiani hanno chiuso la celebrazione con un omaggio musicale. Presenti esponenti di associazioni verdiane straniere e melomani frequentatori del Festival verdiano.

La sera tutti al Teatro Farnese, situato nell’area della Pilotta, per assistere a un grande Falstaff.

Un Falstaff coi colori caldi

del legno

Commedia lirica in tre atti di Arrigo Boito, dalla commedia shakespeariana

The merry Wives of Windsor. Musica di Giuseppe Verdi

(10 ottobre 2011 – p rima)

Di Giosetta Guerra

Tutti gabbati”!

Suona sempre un po’ luciferino lo sfogo finale di Falstaff, quasi un ghigno consolatore intriso di sadismo e di rassegnazione in un mondo dove tutto è burla. Almeno una volta tanto siamo tutti uguali, anche se, si sa, “ride ben chi ride la risata final”. Ma noi non siamo stati gabbati la sera del 10 ottobre 2011 al Teatro Farnese di Parma, almeno dalla produzione di Falstaff.

Sul palcoscenico del seicentesco teatro ligneo non c’è l’osteria della Giarrettiera, ma…: un grande letto in legno naturale che va e viene, bauli di legno in qua e in là, festoni bianchi con disegni neri per raffigurare sia i panni stesi sia l’acqua del Tamigi dalla quale sbucano le braccia gesticolanti di Falstaff, uccellacci neri agitati da figuranti nascosti (solo una volta visibili), una casa di legno con balconcino, dalla cui finestra viene realmente gettato Falstaff per farlo cadere nel fiume (simulato da donne che tirano l’acqua con i secchi), una tinozza lignea con dentro Falstaff nudo ripescato dalle acque, un albero nero spinto a mano e


poi la selva di macbethiana memoria (donne che avanzano con rami frondosi in mano). Niente tecnologia, ma tutto artigianale e in linea con i colori e il calore del teatro. Il fondale è un telo bianco con un paesaggio disegnato in nero e poi i colori si scambiano come nel negativo diuna fotografia nel terzo atto. Allestimento scenico di Jamie Vartan, che cura anche i costumi in stile sobrio e monacale per le donne, estroso, sbuffante, quasi giullaresco per i ruoli buffi maschili. Luci calde di Simon Corder. Il regista Stephen Medcalf caratterizza in modo garbato e mai ridondante i personaggi con l’aiuto degli stessi artisti che sono anche bravi attori.

Nel title rôle Ambrogio Maestri, vestito, a dispetto della sua notevole stazza, con un pagliaccetto bianco e scarpe, berretto, mantello rosso (pagliacciotto –forse meglio coniare un nuovo vocabolo-che poi è rosso e in seguito marrone con corna di cervo), entra sdraiato su un letto spinto a mano e fa subito sfoggio della sua poderosa voce di baritono, enorme, ampia, timbrata, ma capace di alleggerirsi fino ad un comico falsetto (“Io son di Ford”). La sua imponenza vocale e scenica troneggia per tutta l’opera insieme ad una verve tragi-comica che lo rende insuperabile interprete di questo ruolo.

Al suo fianco un silenzioso servitore in armatura da guerriero e i suoi servi Bardolfo e Pistola, che a volte lo beffeggiano e lo ingannano, interpretati sagacemente da Patrizio Saudelli (tenore, un collaudato caratterista) e Mattia Denti (basso), una coppia, tipo “il gatto e la volpe”, delineata con precisione attoriale e vocale dai due bravi artisti.

Uno straordinario Luca Salsi veste i panni di Ford, il baritono gestisce un mezzo vocale ampio e di bel colore con ottimo sostegno del fiato e fraseggio accurato (due titani nel dialogo Ford - Falstaff del secondo atto per la conquista di Alice), grande in “È sogno o realtà” con tormento in orchestra e la voce pacata dei corni.

La voce chiara del tenore Antonio Gandia (Fenton) sale bene e si espande con vigore, Luca Casalin come “tenore di carattere” interpreta Dott. Cajus.

Il canto d’insieme delle comari, rigorosamente in nero e bianco, dà origine ad un ordito intessuto con cura e con gusto, lo scherzo beffardo nei confronti del vecchio è condotto con leggerezza teatrale, ma anche vocale: Svetla Vassileva nei panni di Alice sa far uso della messa di voce, ma il suono è piccolo e a mala pena si sente, Romina Tomasoni come Quickly canta bene ma, non avendo una voce molto timbrata, ha più colori nella tessitura acuta, Daniela Pini è una corretta Meg, la più armoniosa è Barbara Bargnesi nel ruolo di Nannetta, il soprano ha voce estesa, canta sul fiato con voce melodiosa e tenuta del suono, producendo bei filati anche rinforzati (“Sul fil d’un soffio etesio”).

Il mitico Coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, fa emergere le sue ottime qualità vocali ed interpretative.

L’Orchestra del Teatro Regio di Parma, diretta dal giovanissimo Andrea Battistoni, tiene sonorità ora concitate, ora delicate, a mo’ di ricamo, per unirsi al suono intrecciato delle voci in un piacevole e coinvolgente gioco delle parti, cura i ricchi dettagli e i colori della scrittura musicale e dà rilievo alle voci degli strumenti.

Lo spettacolo ha ottenuto il gradimento del pubblico. Noi che conosciamo un po’ la macchina teatrale dobbiamo ritenerci soddisfatti anche del lavoro fatto dietro le quinte dal direttore musicale di palcoscenico Fabrizio Cassi, dal maestro di sala e preparatore musicale Simone Savina, dal maestro di sala e alle luci Claudio Cirelli, dal maestro di palcoscenico Matteo Rubiconi, dal direttore di scena Paola Lazzari, da operatori e tecnici, e dobbiamo ringraziare tutti coloro che hanno dedicano un tempo infinito alla preparazione di un festival di questa portata.


Foto Roberto Ricci Teatro Regio di Parma



mercoledì 19 ottobre 2011



Festival Verdi 2011

Parma - Teatro Farnese

MESSA DA REQUIEM capolavoro di musica sacra di Giuseppe Verdi

8 ottobre 2011

Di Giosetta Guerra

La recita dei premiati

Francesco Meli salva la replica

Il Coro e l’Orchestra del Teatro Regio di Parma, diretti rispettivamente dal Martino Faggiani e dal Yuri Temirkanov, e quattro solisti del calibro di Francesco Meli, Dimitra Theodossiou, Sonia Ganassi, Riccardo Zanellato hanno eseguito la Messa da Requiem (meglio dire Messa di Requiem) di Verdi in un teatro splendido di Parma solitamente riservato alle visite turistiche per la sua particolarità, il Teatro Farnese.
Situato al primo piano del Palazzo della Pilotta, il Teatro Farnese nacque nel 1619 per volontà di Ranuccio I, duca di Parma e Piacenza e fu inaug
urato nel 1628, in occasione delle nozze tra Margherita de' Medici e il duca Odoardo, con lo spettacolo allegorico-mitologico "Mercurio e Marte" (musiche di Claudio Monteverdi su testo di Claudio Achillini). Progettato dall'architetto ferrarese Giovan Battista Aleotti detto l'Argenta, il teatro fu costruito con materiali leggeri come il legno e lo stucco, che furono poi dipinti, nella vecchia "Sala d'arme", un grande "salone" con pianta ad U, circondata da quattordici gradoni che potevano ospitare oltre tremila spettatori. Dati i costi e la complessità degli allestimenti scenici, il teatro fu utilizzato solo nove volte, l’ultima nel 1732, poi il degrado e l’oblio fino alla semi distruzione delle parti lignee e di gran parte delle statue in stucco a causa dei bombardamenti del 1944. Fu ricostruito nel 1956 secondo il disegno originario, ma le parti lignee, in origine completamente decorate, furono lasciate grezze.

Ma torniamo alla serata.

L’ambiente è molto suggestivo, il colore e il calore della struttura lignea, accarezzati dal dialogo iniziale in pianissimo delle due sezioni del coro (maschile e femminile) sottolineato dalla delicatezza degli archi e di un violoncello in sordina e l’alternarsi delle voci soliste nel Kirie creano un coinvolgimento viscerale che durerà fino alla fine. Poi la polverizzazione del silenzio con l’esplosione del Dier irae, straordinaria e desolante rappresentazione della vita offesa, con un vigore quasi violento martellato dalle percussioni, seguito da un rallentando fino al pianissimo, esplosione che si ripete nel Sanctus e si ritrae nel suono sommesso dell’orchestra e del canto a mezza voce di coro e solisti nell’invocazione dell’Agnus Dei, per approdare nella vetta della grande pagina del Libera me Domine (che Verdi aveva già composto per il finale di quella Messa di Requiem collettiva per la morte di Rossini mai presentata al pubblico), perorazione cantata da un soprano ispirato e sussurrata dal coro sopra un suono orchestrale coinvolgente.

La lettura di Yuri Temirkanov, il maestro di San Pietroburgo, rientra nel calore e nelle linee smussate del teatro con tempi musicali distesi e rigorosi; l’Orchestra di cinquanta elementi e il Coro (37 maschi e 30 femmine preparati da Martino Faggiani, impressionante il suono denso, pieno, cupo dei bassi) del Teatro Regio di Parma rispondono con la nota professionalità.

Per la parte vocale un vivo ringraziamento va rivolto al tenore Francesco Meli che tra due recite di Un ballo in maschera ha sostituito Roberto Aronica indisposto. Ed ha trionfato anche qui. La sua voce si espande con pulizia e lucentezza e le sue soavissime mezze voci sono sonore anche in un teatro che non ha un’acustica ideale, l’accurato modo di porgere ed ovviamente la qualità del mezzo vocale gli danno sicurezza sia nella melodiosità del canto sfumato sia nell’esuberanza del canto a piena voce.

La voce del basso Riccardo Zanellato (che ha ritrovato una forma fisica splendida) è talmente bella che ne vorresti sentire di più: calda, rotonda, ampia, ferma nella tenuta del suono, morbida nell’emissione, note gravi di grande rilievo, ottima la tecnica di canto, ma un pizzico di volume in più non avrebbe guastato.

Sonia Ganassi è musicista raffinata e brava fraseggiatrice, l’eccellente tecnica di canto le consente di gestire bene una vocalità luminosa nei suoni acuti e negli slanci, sensibile nei pianissimi e nelle ottime modulazioni, un po’ cupa nella zona media, ma sicura nei gravi.

Dimitra Theodossiou, eletta quest’anno Regina del Melodramma, si è distinta per la melodiosità del suono, lunghissimi fiati, filati celestiali, delicati pianissimi e possenti acuti a voce piena. A lei il compito di chiudere col “Libera me domine”, tra le ovazioni del pubblico per tutti gli artisti.

Incredibile ma vero: Theodossiou, Ganassi, Meli, Zanellato, Faggiani, Coro hanno avuto il Premio Tiberini.

Foto Studio Vigo

martedì 18 ottobre 2011




Parma - Festival Verdi 2011

Un mese di opere, mostre, concerti.

Teatro Regio “Un ballo in maschera”

Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, tratto da Gustave III ou le bal masqué di Eugène Scribe, musica di Giuseppe Verdi

9 ottobre 2011


di Giosetta Guerra

Entusiasmo per la

coppia Francesco Meli-Serena Gamberoni

Massimo Gasparon ha ripescato l’allestimento tradizionale di Pierluigi Samaritani del Teatro Regio di Parma rifacendo le parti e i costumi rovinati dal tempo.

Ecco la scenografia: grande scalinata che giunge a una vetrage, con bandiere inglesi e cortigiani distribuiti con cura sì da creare un grande quadro d’epoca per il palazzo del governatore; un loco semioscuro tra le rocce, da cui si affacciano giovani a dorso nudo e donne velate, tagliato da uno sprazzo di luce filtrante da un grosso pertugio, donzelle discinte gesticolanti a terra sopra una stella a sei punte, per l’antro di Ulrica; nebbia, lapidi, croci bianche, alberi neri per il campo solitario; grande tavolo con tappeto rosso, strumenti musicali antichi e libri per l’appartamento di Renato; festosa sala da ballo con coppie imparruccate tutt’intorno ed al centro inquietanti danzatori bianchi con doppia maschera bifronte e seni sulla schiena per gli uomini, sì che bisognava guardare i piedi per capire dove ognuno era rivolto, tra loro anche una violinista e in fondo violini e violoncelli.

Il regista ha optato spesso per una posizione concertistica dei cantanti per dar risalto ai personaggi e io che ero in un palco di proscenio ho scrutato ogni espressione, ogni respiro, ogni sguardo dei cantanti, come ho colto la profonda immedesimazione del M° Gianluigi Gelmetti, che nel rispetto della funzione drammatica della musica ha diretto con tempi serrati e coinvolgenti una splendida Orchestra e il magnifico coro del Teatro Regio, icona del melodramma italiano, pieno e trascinante nel vigore cadenzato della musica, morbido nel cesello dei lunghi filati e delle suggestive pennellate vocali a mezza voce, attentamente preparato dal genio di Martino Faggiani. Nella scena finale della morte di Riccardo il palcoscenico si è popolato e l’orchestra è esplosa. Un inno a Giuseppe Verdi. Favolosi.

Belli i costumi dai colori sparati, di foggia antica, presenti bambini vestiti da paggetti.

Sul versante vocale la coppia Francesco Meli-Serena Gamberoni ha riportato lo strepitoso successo ottenuto nello stesso teatro centocinquanta anni fa dalla coppia Mario Tiberini-Angiolina Ortolani.

Primeggia fra tutti Francesco Meli, un Riccardo ispirato fin dalla prima aria “La rivedrà nell’estasi” che ha affrontato con enfasi e piglio eroico, con generosità e tenuta del suono, gestito con la saggezza di cantare sul fiato e quindi piegandolo alla soavità del cantar a fior di labbra e alla veemenza dello squillo pieno senza forzature. Sicuro negli affondi (“Dì, tu sei fedele”), bravissimo nel canto a mezza voce e negli sbalzi (“Sull’agil prova”) e nella sillabazione di “È scherzo o è follia”, quasi una ballata, ha modulato la voce sui palpiti del cuore (“Ma se m’è forza perderti”) con colore bellissimo, fiati lunghissimi, espansioni acute larghe e lucenti, mezze voci struggenti (“Forse la soglia attinse”). Meli, erede dei grandi tenori del passato, è interprete eccelso e realizza appieno la parola scenica con dizione chiara, padronanza dell’arte del canto e slancio eroico (“Sì, rivederti, Amelia”). Grandissimo nella scena della morte, pugnalato alle spalle.


Serena Gamberoni con voce fresca, pulitissima, scintillante, sicura, estesa, luminosissima in tessitura acuta, ha delineato un Oscar malizioso e mobilissimo, la sua voce svettante ha superato tutti in “Di che fulgor”, è stata deliziosa, brillantissima e agilissima nella famosa aria “Saper vorreste”. Il soprano conosce l’arte del canto e ce ne ha dato una dimostrazione tangibile, delineando un Oscar da manuale.


Ci sarebbe voluta un’Amelia alla stessa altezza di questa magnifica coppia; il soprano statunitense Kristin Lewis (Amelia con abiti splendidi), pur avendo tanta voce e di bel timbro, ha cantato tutto sul forte e con dizione incomprensibile, l’acuto era grido, tuttavia in corso d’opera l’emissione si è affinata, il soprano ha prodotto belle vibrazioni e bei colori in zona medio grave, buoni assottigliamenti e gravi quasi mezzosopranili, fino a cantare splendidamente con le dovute modulazioni “Morrò ma prima in grazia”.

Nobile nel porgere, con accento intenso e scandito e padronanza del canto sfumato e della parola scenica, il bulgaro Vladimir Stoyanov (Renato) ha evidenziato un bel timbro baritonale rotondo ed esteso e linea di canto morbida.

Con forza scenica e maestria interpretativa il mezzosoprano drammatico Elisabetta Fiorillo (una Ulrica dai capelli grigi arruffati e un lungo abito in velluto colorato) ha scolpito un personaggio storico con voce screziata, tagliente, un po’ oscillante, un registro grave poderoso, un declamato imponente, una tecnica di canto solida.

Buone le voci di Filippo Polinelli (Silvano) un baritono ben timbrato, di Antonio Barbagallo (Samuel) e di Enrico Rinaldo (Tom), un po’ meno gradevole quella del tenore Cosimo Vassallo (giudice).

Grande successo.

Presenti in questa produzione alcuni premiati col Tiberini d’oro: Martino Faggiani e Coro Teatro Regio di Parma Premio Tiberini d’oro 2011, Francesco Meli e Serena Gamberoni Premio d’oro Tiberini/Ortolani come coppia dell’anno 2009.

Storia e curiosità

La prima di Un Ballo in Maschera ebbe luogo il 17 febbraio 1859 al Teatro Apollo di Roma, teatro costruito nel 1795 sulla Torre di Nona, antica prigione, distrutto nel 1925 in seguito alla costruzione dei muraglioni del Tevere e rimpiazzato con una fontana a ricordo del teatro.
Il tenore Mario Tiberini interpretò il ruolo di Riccardo dal 1862 l 1871 a Napoli, Roma, Firenze, Milano, Madrid.
Il 4 gennaio 1864 i coniugi Tiberini furono protagonisti di Un Ballo in Maschera al Teatro Apollo di Roma. Ecco cose scrive Il Pirata due giorni dopo:
“I conjugi Tiberini eseguirono le parti a loro affidate da provetti artisti, che nulla lasciano a desiderare sia dal lato musicale sia da quello drammatico. Mario Tiberini si mostrò un Riccardo giustamente applaudito alla sua Cavatina, alla Barcarola, al Duetto dell’atto II, specialmente ebbe applausi per la Romanza del III, per la toccante dolcezza con cui eseguì il Largo e la forza con cui espresse l’ultima frase “La rivedrò nell’estasi”. Mario Tiberini è uno dei pochi che possono coscienziosamente chiamarsi campione dell’arte, Angiolina fu un’Amelia fantastica, simpatica, insinuante per la voce dolce che esce dal cuore e l’espressione angelica…”.
Il 26 dicembre 1867 al Teatro alla Scala di Milano Tiberini, padrone dell’arte del canto e dello scavo psicologico del personaggio, riuscì a smuovere quella pance piene di risotto, perché ebbe momenti sublimi e soggiogò il pubblico.
Così scrive La Gazzetta Musicale di Milano il 31 dicembre 1867:
“Il Tiberini primeggiò fra tutti: egli creò un personaggio affatto nuovo della parte di Riccardo: fece comprendere e scoprire al pubblico bellezze fino ad ora sconosciute: questo artista nulla trascura: il minimo dettaglio, una parola, un gesto, sono per lui oggetto di uno speciale studio: dal principio alla fine dell’opera Tiberini venne fatto oggetto di continue e clamorose ovazioni. Fra i pezzi nei quali egli ci parve più notevole citeremo: la barcarola del primo atto e il seguente quintetto , il duetto d’amore del secondo atto; nell’ultimo atto la romanza di Riccardo, che non si era quasi mai udita e che ci apparve una deliziosa melodia, di forme accuratissime ed eleganti, ed in fine la scena della morte nella quale il Tiberini fu grande, ispirato, straziante. Questo stupendo finale dell’opera ha suscitato il più vivo entusiasmo, sì che il pubblico chiamò ben quattro volte all’onore del proscenio tutti gli artisti.”

(Da: Giosetta Guerra – Mario Tiberini, tenore).