Uno sfizioso Frate 'Nnamorato
di Giovan Battista Pergolesi
Servizio di Giosetta Guerra
JESI (An) - Teatro Pergolesi di Jesi, domenica 2 ottobre 2011. Questa commedia in
musica “in lingua napoletana” è un leggiadro affresco della società partenopea del XVIII
secolo e ruota attorno ad una serie di matrimoni, combinati da Carlo ricco borghese
romano e da Marcaniello attempato popolano napoletano, senza consultare le donne
coinvolte. Il regista scenografo argentino Willy Landin, Director del Centro de
Experimentación del Teatro Colón di Buenos Aires e dal 1995 collaboratore di Hugo de
Ana, con questo nuovo allestimento trasporta la vicenda agli anni quaranta del secolo
scorso, di cui riporta con didascalica minuziosità lo stile sia nell’arredamento delle
stanze che si vedono dalle finestre/balcone del palazzo (il paralume della cucina e la
carta da parati che si intravedono quando negli ambienti interni si accendono le luci, i
vasi di fiori e le gabbiette degli uccelli sui terrazzini a sbalzo con le ringhiere di ferro, le lenzuola stese), sia nell’abbigliamento creato da Elena Cicorella (il vestito a giacca degli uomini - azzurro per Pietro, marrone per Carlo, nero per Marcaniello, beige per Ascanio -, e per le donne vestagliette da casa e parananza, sandali con la zeppa di sughero, borsetta sotto braccio, gonna svasata con camicetta e giacchettina avvitata, bigodini e acconciature coi capelli arrotolati in un lungo boccolo ai contorni del viso (anche mia madre in gioventù si pettinava come Nina e Nena) e poi la mitica vespa brevettata nel 1946, un bar col bancone tipico arredato con tavoli tondi dalla piana di marmo e sedie in ferro battuto e camerieri con lunghi grembiuli bianchi).
La regia è sfiziosa ed originale, la gestualità, che in alcune occasioni diventa gesticolazione, rispecchia l’estrazione sociale dei personaggi, così Don Carlo ha modi spropositatamente cerimoniosi e Marcaniello una componente mimica molto accentuata, Ascanio è l’amoroso indeciso che sospira, tra le donne le due servette Vannella e Cardella sono le più scatenate,
Luggrezia è la più malinconica, le due sorelle Nina e Nena le più determinate. I giovani artisti del cast jesino, guidati dal bravo regista argentino, hanno avuto la capacità di dare brio e scorrevolezza ad una commedia che ha una trama leggera, una progressione narrativa lenta, una
lingua pressoché incomprensibile (benvenuti i sopratitoli per il dialetto napoletano antico). Tuttavia è la musica l’elemento dinamico di base che segna scansioni e ritmi. E, per realizzare la flessibilità dell’articolazione musicale e la mutevolezza del divenire degli eventi, senza calcare la mano sugli elementi di stampo comico o popolaresco, l’ensemble Europa Galante, che suona su strumenti d’epoca, si è avvalso della collaudata esperienza del maestro Fabio Biondi, direttore, violino e viola d’amore. Bravi, da premiare.
Sul piano vocale, pur non essendoci il cast stellare de Lo frate al Teatro alla Scala nel dicembre del 1989 con la direzione di Riccardo Muti, giovani bravi cantanti-attori, alcuni dei quali con già alle spalle una carriera internazionale di grande prestigio, hanno realizzato uno spettacolo gradevolissimo e di qualità, in linea con l’operato del Teatro Pergolesi di Jesi. Spicca, naturalmente, l’imponenza scenica e vocale del baritono Nicola Alaimo, premio Tiberini d’oro 2011, nel ruolo del vecchio Marcaniello, che sulla carta è segnato come basso, ma, a parte che i registri vocali di oggi si discostano da quelli d’un tempo per via del cambiamento della frequenza del diapason (così mi spiegavano a teatro), Alaimo ha le qualità per interpretare egregiamente
anche i ruoli di basso buffo. Dotato di una cassa armonica poderosa, esibisce già dalla prima aria mossa in orchestra “Veda ossorìa” una vocalità di grande pregio per spessore, ampiezza, estensione paurosa, generosità del suono, forse sprecata per questo ruolo versato alla comicità, che ad Alaimo comunque non manca e che lui, fortemente caratterizzato (una deambulazione precaria, difficoltà a rialzarsi), accentua con arguzia. Anche Don Pietro è segnato come basso virtuoso con estensione acuta, ma Filippo Morace ha voce baritonale piuttosto chiara e con carenza di gravi, ma è bravissimo in scena nel delineare un personaggio sbruffone e donnaiolo. E così Ascanio, Nina e Luggrezia, scritti per contralto, hanno qui la voce di due soprani Elena Belfiore e Jurgita Adamonyte e di un mezzosoprano Barbara Di Castri. Elena Belfiore, che entra
mirabilmente nei panni maschili, è un soprano ben timbrato dalla voce calda ed armoniosa, che si piega alle modulazioni del canto patetico e si lancia in acuti dolcissimi. Jurgita Adamonyte si muove bene vocalmente in tutta la gamma, è duttile nel canto sbalzato, ha luminosità in zona acuta e consistenza nei suoni medi e gravi. Barbara Di Castri ha voce di bel colore ma inficiata da un certo vibrato, si piega con destrezza alla leggerezza della zona acuta, alla rotondità dei suoni medi e alla densità dei suoni gravi. Il soprano Patrizia Biccirè (Nena) sa cantare ed ha facilità di espandersi in zona acuta, a lei è affidata una grande aria di bravura con flauto obbligato nel 3° atto, che esegue con voce melodiosa; il soprano Laura Cherici (Vannella) ha poca voce e con vibrato, ma è brava nel canto veloce e d’agilità, inoltre ha temperamento e vivacità. Cardella, segnata come soprano, è invece qui il mezzosoprano Rosa Bove che ha suoni intubati e voce di poco spessore che non passa l’orchestra, ma vivacità interpretativa; David Alegret (Carlo) è un tenore di voce chiara ed estesa un po’ monocorde. Lo spettacolo ha ricevuto il gradimento del pubblico.
musica “in lingua napoletana” è un leggiadro affresco della società partenopea del XVIII
secolo e ruota attorno ad una serie di matrimoni, combinati da Carlo ricco borghese
romano e da Marcaniello attempato popolano napoletano, senza consultare le donne
coinvolte. Il regista scenografo argentino Willy Landin, Director del Centro de
Experimentación del Teatro Colón di Buenos Aires e dal 1995 collaboratore di Hugo de
Ana, con questo nuovo allestimento trasporta la vicenda agli anni quaranta del secolo
scorso, di cui riporta con didascalica minuziosità lo stile sia nell’arredamento delle
stanze che si vedono dalle finestre/balcone del palazzo (il paralume della cucina e la
carta da parati che si intravedono quando negli ambienti interni si accendono le luci, i
vasi di fiori e le gabbiette degli uccelli sui terrazzini a sbalzo con le ringhiere di ferro, le lenzuola stese), sia nell’abbigliamento creato da Elena Cicorella (il vestito a giacca degli uomini - azzurro per Pietro, marrone per Carlo, nero per Marcaniello, beige per Ascanio -, e per le donne vestagliette da casa e parananza, sandali con la zeppa di sughero, borsetta sotto braccio, gonna svasata con camicetta e giacchettina avvitata, bigodini e acconciature coi capelli arrotolati in un lungo boccolo ai contorni del viso (anche mia madre in gioventù si pettinava come Nina e Nena) e poi la mitica vespa brevettata nel 1946, un bar col bancone tipico arredato con tavoli tondi dalla piana di marmo e sedie in ferro battuto e camerieri con lunghi grembiuli bianchi).
La regia è sfiziosa ed originale, la gestualità, che in alcune occasioni diventa gesticolazione, rispecchia l’estrazione sociale dei personaggi, così Don Carlo ha modi spropositatamente cerimoniosi e Marcaniello una componente mimica molto accentuata, Ascanio è l’amoroso indeciso che sospira, tra le donne le due servette Vannella e Cardella sono le più scatenate,
Luggrezia è la più malinconica, le due sorelle Nina e Nena le più determinate. I giovani artisti del cast jesino, guidati dal bravo regista argentino, hanno avuto la capacità di dare brio e scorrevolezza ad una commedia che ha una trama leggera, una progressione narrativa lenta, una
lingua pressoché incomprensibile (benvenuti i sopratitoli per il dialetto napoletano antico). Tuttavia è la musica l’elemento dinamico di base che segna scansioni e ritmi. E, per realizzare la flessibilità dell’articolazione musicale e la mutevolezza del divenire degli eventi, senza calcare la mano sugli elementi di stampo comico o popolaresco, l’ensemble Europa Galante, che suona su strumenti d’epoca, si è avvalso della collaudata esperienza del maestro Fabio Biondi, direttore, violino e viola d’amore. Bravi, da premiare.
Sul piano vocale, pur non essendoci il cast stellare de Lo frate al Teatro alla Scala nel dicembre del 1989 con la direzione di Riccardo Muti, giovani bravi cantanti-attori, alcuni dei quali con già alle spalle una carriera internazionale di grande prestigio, hanno realizzato uno spettacolo gradevolissimo e di qualità, in linea con l’operato del Teatro Pergolesi di Jesi. Spicca, naturalmente, l’imponenza scenica e vocale del baritono Nicola Alaimo, premio Tiberini d’oro 2011, nel ruolo del vecchio Marcaniello, che sulla carta è segnato come basso, ma, a parte che i registri vocali di oggi si discostano da quelli d’un tempo per via del cambiamento della frequenza del diapason (così mi spiegavano a teatro), Alaimo ha le qualità per interpretare egregiamente
anche i ruoli di basso buffo. Dotato di una cassa armonica poderosa, esibisce già dalla prima aria mossa in orchestra “Veda ossorìa” una vocalità di grande pregio per spessore, ampiezza, estensione paurosa, generosità del suono, forse sprecata per questo ruolo versato alla comicità, che ad Alaimo comunque non manca e che lui, fortemente caratterizzato (una deambulazione precaria, difficoltà a rialzarsi), accentua con arguzia. Anche Don Pietro è segnato come basso virtuoso con estensione acuta, ma Filippo Morace ha voce baritonale piuttosto chiara e con carenza di gravi, ma è bravissimo in scena nel delineare un personaggio sbruffone e donnaiolo. E così Ascanio, Nina e Luggrezia, scritti per contralto, hanno qui la voce di due soprani Elena Belfiore e Jurgita Adamonyte e di un mezzosoprano Barbara Di Castri. Elena Belfiore, che entra
mirabilmente nei panni maschili, è un soprano ben timbrato dalla voce calda ed armoniosa, che si piega alle modulazioni del canto patetico e si lancia in acuti dolcissimi. Jurgita Adamonyte si muove bene vocalmente in tutta la gamma, è duttile nel canto sbalzato, ha luminosità in zona acuta e consistenza nei suoni medi e gravi. Barbara Di Castri ha voce di bel colore ma inficiata da un certo vibrato, si piega con destrezza alla leggerezza della zona acuta, alla rotondità dei suoni medi e alla densità dei suoni gravi. Il soprano Patrizia Biccirè (Nena) sa cantare ed ha facilità di espandersi in zona acuta, a lei è affidata una grande aria di bravura con flauto obbligato nel 3° atto, che esegue con voce melodiosa; il soprano Laura Cherici (Vannella) ha poca voce e con vibrato, ma è brava nel canto veloce e d’agilità, inoltre ha temperamento e vivacità. Cardella, segnata come soprano, è invece qui il mezzosoprano Rosa Bove che ha suoni intubati e voce di poco spessore che non passa l’orchestra, ma vivacità interpretativa; David Alegret (Carlo) è un tenore di voce chiara ed estesa un po’ monocorde. Lo spettacolo ha ricevuto il gradimento del pubblico.
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