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Fano-prosa: Sinfonia d'autunno
Teatro della Fortuna di Fano
SINFONIA (triste)
D’AUTUNNO
di Ingmar Bergman
(6 dicembre 2014)
Recensione
di Giosetta Guerra
Essere soli significa
non potersi raccontare a
nessuno
Ề buio e
tuona; a poco a poco la scena s’illumina della fioca luce di due lampade ai
lati di un lungo divano grigio posto davanti ad una vetrata, a sinistra la
scrivania di Eva, a destra un televisore dove Viktor guarda le immagini del
figlioletto scomparso e in un angolo la cameretta coi giochi rimasta intatta,
dove i genitori isolatamente si rifugiano nell’illusione di continuare a
parlare e a giocare col figlio. Una scala laterale porta ad un lungo ballatoio
che conduce alla camera di Helena, costretta a letto o sulla sedia a rotelle
dalla sua infermità. In quella casa regnano silenzio e dolore, squarciati ogni
tanto dalle grida laceranti di Helena, seguiti dalla corsa precipitosa di Eva
che corre dalla sorella, i dialoghi tra Eva e Viktor sono meri monologhi,
l’atmosfera è cupa, i costumi sono grigi e austeri, la scena è grigia e popolata
di fantasmi del passato, perfino da un fantomatico pianoforte che Charlotte
finge di suonare sedendo su un seggiolino posto sul boccascena e tenendo le
braccia in avanti protese nel vuoto in atteggiamento di usare la tastiera
(originale idea registica). L’arrivo di Charlotte, famosa pianista e madre di
Eva, per lo più assente a causa della sua carriera, ma presente nell’esercizio
del suo dispotismo, segnando negativamente la vita delle figlie, fa ritornare a
galla le frustrazioni del passato scatenando violente reazioni tra i componenti
della famiglia. Vorrebbero comunicare, vorrebbero perdonare, ma il baratro è
troppo profondo e ognuno di loro è solo perché non riesce a raccontarsi
all’altro.
Lo stile asciutto e serrato di Bergman è la stessa cifra stilistica di Gabriele Lavia, che ha curato la regia di Sinfonia d’autunno ed ha preparato gli attori alla lettura e
all’interpretazione di un testo difficile, di una storia complicata, di un
groviglio di vipere attraversato dai fili dell’alta tensione. La sua impronta
è evidente nel modo di recitare degli artisti, nell’abilità di scavare
nell’intimo dei personaggi per far emergere l’egocentrismo e l’autoritarismo
della madre, la sofferenza sia fisica che interiore delle due sfortunate
figlie, la drammatica rassegnazione dell’unico uomo di casa.
Charlotte è interpretata da un’insuperabile Anna Maria Guarnieri al suo sessantesimo anno di teatro. Vestita con un
comodo camicione prima grigio poi rosso (unica macchia di colore in questo
grigiore snervante e ossessivo, come la vita dei membri della famiglia), tiene
una recitazione pacata nel racconto delle ultime ore di suo marito Leonardo, la
dizione è chiarissima, ma poi la gestualità tradisce la sua nevrosi dovuta a
continue lotte interiori e al mal di schiena, si alza, passeggia, si
pavoneggia, s’innervosisce per la figlia malata e ogni tanto si distende sul
divano sempre nello stesso angolo, con la testa indietro e le braccia larghe
continuando a parlare. Recita distesa anche sullo sgabello del pianoforte, sul
tavolino del salotto contorcendosi per il dolore, gattona e parla parla parla,
si placa solo davanti al pianoforte fantasma, dove obbliga la figlia a sedersi
con lei, a fingere di suonare e ad ascoltare le sue lezioni sul modo
d’interpretare Chopin. La recitazione si fa fremente quando parla della sua
carriera, del calore e della tenerezza con cui interpretava Schumann, l’amore
per il pianoforte che l’ha tenuta in vita ma lontana dai doveri familiari è
ancora forte, e ora che la sua carriera è finita emergono i dubbi e i
rimpianti, tuttavia per lei è “meglio una sana donna anormale”, ma poi
aggiunge “Avevi i toni dell’amore ma non
avevi l’amore”; è una donna cinica e sofferente, che, nonostante i suoi
rimorsi come madre mancata, non rinuncia ad una nuova tournée comunicatale al
cellulare (aggiunta registica). L’interpretazione della Guarnieri è magistrale
per la sicurezza e la fluidità dell’eloquio, per l’espressività gestuale, per
la padronanza scenica, per la caratterizzazione del personaggio in tutte le sue
sfumature.
Anche la figlia Eva è nevrotica per essere stata
privata dell’affetto materno, che vorrebbe ora riconquistare, per essere stata
costretta a curare sua sorella e per aver perso un bambino. La presenza della
madre, dopo sette anni di silenzio, la libera dell’incapacità di esternare la sua sofferenza e la fa esplodere
in un’invettiva di amore/odio da manuale.
Valeria Milillo interiorizza questa forma contenuta di follia e la esterna in modo superbo fino a
darti l’ansia, è ipercinetica nel muoversi e agitata nel parlare, piena di
ansia e d’insicurezza, l’espressività del volto segue i cambiamenti d’umore,
amore e odio verso la madre la rendono nel contempo sottomessa e ribelle, il
racconto della sua infanzia è soffocante, i dialoghi con la madre sono densi.
Danilo Nigrelli delinea magistralmente quel pover’uomo di Viktor,
che non sa più che pesci prendere con quelle tre donne sull’orlo di una crisi
di nervi, compie gli stessi gesti, fa le stesse azioni (gira il televisore, lo
accende, prende la seggiolina, si siede, guarda il video di suo figlio, spegne
il televisore, lo rigira, mette a posto la seggiolina) e si consola pensando
che nella vita c’è un solo fenomeno di cui non si sa nulla: la vita stessa.
La regia punta sull’effetto drammatico anche
visivamente, col fermo immagine in controluce, coi silenzi, con la staticità di
certi quadri familiari, con una gestualità ripetitiva o portata all’estremo,
con musica straniante, a volte ostinata su una sola nota, tipica degli
spettacoli di Lavia. La scena in cui Helena si trascina carponi lungo il
ballatoio e scende le scale a testa in giù gridando fa rabbrividire, le sue
mani accartocciate e rattrappite, la smorfia di dolore sul suo viso stravolto,
l’inutile tentativo di articolare le parole fanno di Helena un personaggio
tragico che la bravura di Silvia Salvatori rende incredibilmente vero.
La tenuta drammatica non si allenta mai, i quattro
attori sono di una bravura indescrivibile e la preziosità dell’allestimento
porta la firma di Gabriele Lavia. Grande!
Peccato che il regista non sia uscito alla fine per
gli applausi.
Scene di Alessandro Camera, costumi di Claudia Calvaresi, musiche originali di Giordano Corapi, luci di Simone De Angelis, produzione Teatro Stabile dell'Umbria/Fondazione Brunello Cucinelli.
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