Massimo Viazzo
«O Freiheit! Herr Gott im Himmel!» lo squarcio lirico che accompagna il ritorno di Lulu a casa, alla fine del secondo atto, dopo le vicissitudini legate alla sua prigionia e alla laboriosa liberazione, risulta essere l’emblema dell’opera. La libertà tanto auspicata e in realtà mai così soffocata della protagonista resta la cifra identificativa di un personaggio che ammorba e seduce a un tempo. Anche il pubblico ne subisce il fascino e non può così provare che pietà e compassione per la kleine Lulu, lei sbandata, lei prostituta, lei assassina, ma anche lei che, senza passato, non sa e non può cogliere il presente e, soprattutto, non conosce futuro. Il capolavoro di Alban Berg approda alla Scala dopo più di trent’anni nella coproduzione creata a Lyon la stagione scorsa. Rispetto a quell’edizione direi che non si sono visti mutamenti sostanziali per quanto riguarda l’impostazione registica. Lo spettacolo di Peter Stein, semplice, ma efficacissimo nel cogliere il taglio cinematografico latente nella drammaturgia del lavoro, conduce lo spettatore per mano, spettatore che se non adeguatamente pronto, ricettivo e attivo (uditivamente parlando), rischia di uscire frastornato dal confronto con una partitura che giganteggia per densità di scrittura orchestrale ed esuberanza motivica. Riviste, le scene in stile art déco approntate da Ferdinand Wögerbauer conservano una certa eleganza e anche i costumi paiono azzeccati.
Variazioni (poche, ma rilevanti), invece, per quanto riguarda la parte musicale, a cominciare dalla bacchetta ispiratissima di Daniele Gatti. Il direttore milanese ha ricercato grande compattezza strutturale lavorando molto (quasi wagnerianamente) sull’intersezione e la confluenza dei Leitmotiv, sempre perfettamente calati in un tessuto musicale reso incandescente. Nei momenti più «mahleriani» (segnatamente la Verwandlung tra la seconda e la terza scena del primo atto) Gatti ha ottenuto dall’Orchestra del Teatro, in gran forma, un suono caldo e corposo, che sapeva stimbrarsi opportunamente durante gli episodi stranianti di inizio terzo atto. L’altra new entry rispetto alle recite lionesi era Natasha Petrinsky nei panni dell’amante lesbica e ad una più che adeguata presenza vocale si è notata l’accattivante presenza scenica. Ma un po’ tutto il cast non ha deluso, dal commovente Schigolch di Franz Mazura (ancora in scena a 86 anni!) al temperamentoso, ma fragile Alwa di Thomas Piffka. La vera trionfatrice della serata resta, però, Laura Aikin. La Aikin è Lulu: tecnica, carattere, intraprendenza scenica, tutto pare metabolizzato in lei in un’opera di immedesimazione totale con il personaggio (taglio di capelli alla Louise Brooks compreso). E il pubblico rimasto in sala (purtroppo apparso un po’ decimato al termine della rappresentazione, dopo alcune inevitabili, ma ingiustificate, defezioni al termine degli atti precedenti) le ha tributato il meritatissimo applauso.
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