Fano - Teatro della Fortuna
Il trovatore partigiano
13 ottobre 2018
A cura di
Giosetta Guerra
Se Verdi tornasse non darebbe ai registi la facoltà di creare e, se avessi potere, non gliela darei neanche io.
Valentina
Carrasco, responsabile di regia (proprio responsabile) e luci, prende spunto da Il
Trovatore di Giuseppe Verdi, per narrare l’amore di due giovani
partigiani, Manrico e Leonora, durante il fascismo. Manrico dirige il giornale
clandestino “La voce della libertà” e Leonora è una sorta di informatore
esterno. E gli altri, a dire il vero, non si capisce che ruolo abbiano, a meno
che non si chieda alla regista.
Le scene di Giada Abienti e i
costumi di Elena Cicorella seguono
le direttive registiche.
Quindi c’è la redazione clandestina del giornale, che giganteggia sul
fondale, ci sono militari fascisti atti a censurare gli articoli, non manca la
proiezione della ormai inflazionata deportazione degli ebrei e del taglio dei
capelli, tutti girano con le armi in mano, c’è la bruciatura delle copie del
giornale, sono presenti anche le suore figlie della carità di San Vincenzo,
dette le cappellone per quel grande copricapo bianco che indossano, atte a
servire i pasti ai soldati nel loro convento, che ci rammentano le mense dei
poveri.
I fascisti hanno la tipica divisa compreso il fez in testa, i soldati del
Conte son travestiti da mendicanti, di taglio maschile gli abiti femminili, c’è
un cambio d’abito di Leonora in scena.
Quindi non perdiamoci nella ricerca di un nesso
tra quel che è scritto e quel che si vede, sappiamo che i registi oggi hanno bisogno
di reinventare, di filosofeggiare, di analizzare la società presente, soprattutto
per criticare e per condannare, tutte cose che il cultore d’opera non vuole.
Comunque, gusti a parte, lo spettacolo è ben
fatto, coerente, con belle scene d’insieme e atmosfera cupa, colori tetri, luce
per lo più proiettata dall’alto.
In un’ambientazione più vicina ai nostri giorni, dunque, ma estranea al
libretto di Salvatore Cammarano la
musica è fortunatamente quella de Il
Trovatore di Giuseppe Verdi. E il cast è buono.
Carlo Malinverno nel ruolo di Ferrando
esibisce voce poderosa di basso, di bel colore, duttile ed estesa, ma a volte
un po’ berciante (“Abbietta zingara”)
Il difficile ruolo di Leonora è ben
sostenuto da Marta Torbidoni. Fin
dalla sua prima aria “Tacea la notte placida” il soprano lirico mette in luce un bel corpo vocale, dal
colore magnifico, suoni rotondi, acuti sostenuti, perfette scale discendenti,
accattivante modo di porgere, e la voce possente si lancia nelle agilità
di forza, nei trilli e picchettati dei
tratti belcantistici e si piega
a sensibili modulazioni nei passi lirici. “D’amor sull’ali rosee” è una
lezione di tecnica vocale con suoni morbidi, filati e uso della messa di voce.
Il bel colore vocale del baritono Simone Alberghini ben si adatta al Conte
di Luna, che non è un ruolo facile, mi piaceva molto Zancanaro. Alberghini
ha una bella gettata di voce, estesa, “Il balen del suo sorriso”, con
attacco morbido, è cantata benissimo tutta sul fiato.
Gli zingari, che qui non sono zingari, entrano
in scena dentro un rimorchio e con la pagina corale “Vedi! Le fosche
notturne spoglie” invitano a martellare, lo fanno a voce piena,
cantando anche troppo forte, ma qui non c’è l’incudine.
Seduta su un carretto Silvia Beltrami, scenicamente perfetta nel ruolo di Azucena,
esibisce voce estesa, sonora, vibrante, dal colore denso, buoni affondi e un
bel modo di porgere. In “Stride la vampa” c’è il dramma nella sua voce,
mentre uno dietro stampa i giornali. Nel duetto con Manrico le voci sono
portate all’estremo anche per emergere dal suono deflagrante dell’orchestra
sotto la narrazione della zingara.
Ivan Defabiani è vocalmente un vigoroso e
irruento Manrico. Il tenore canta per lo più di forza, ma è in grado di
alleggerire il suono nei passi lirici e di padroneggiare il canto nelle pagine
belcantistiche. Il timbro è bello e lo squillo per lo più sicuro. Dovrebbe
migliorare la gestione del fiato, perché la voce è migliore quando non spinge,
mentre quando la tende perde in fermezza (“Ah sì ben mio”). “Di
quella pira” è cantata con i dovuti chiaro-scuri, mentre dietro bruciano i
libri. (Ma la pira verdiana aveva odore di carne e non di carta). Intenso il
duetto finale con Azucena, tutto cantato sul fiato.
Il soprano Susanna Wolff è una delicata
Ines, il tenore Alexander Vorona
è un buon Ruiz, il basso Davide Filipponi
è il vecchio zingaro.
Sebastiano Rolli dirige senza spartito con
gesto sciolto e deciso la brava Orchestra
Filarmonica Marchigiana, a volte un po’ prorompente.
Il coro del Teatro Ventidio Basso
di Ascoli Piceno, diretto da Giovanni
Farina, conferma la sua buona preparazione e la sua professionalità.
Nessun commento:
Posta un commento