ROF
2018
Pesaro Adriatic Arena
Il Barbiere di Siviglia
(13 agosto 2018,
prima)
A cura di Giosetta Guerra
Alla fine vince Rossini
Finalmente un
Barbiere dalle linee classiche, poco mosso in palcoscenico e con la Sinfonia a sipario chiuso non popolata.
Riconoscibili le
linee e i colori di Pier Luigi Pizzi
negli ambienti e nei costumi: bianche, geometriche e con balcone le abitazioni
dirimpettaie del conte e di Rosina, bianco il cielo per una luminosità diffusa,
come nel Così fan tutte sempre di
Pizzi, bianchi e neri gli abiti con qualche pennellata di viola (tipico di
Pizzi) per Bartolo e Berta, di rosso per i mantelli e di celeste e verde acqua
per gli abiti della bella Rosina, qualche giovinotto a dorso nudo (il conte
s’infila la camicia sul balcone di casa sua, Figaro attraversa la passerella
intorno all’orchestra a petto nudo,
perfino il vecchio Ambrogio (interpretato
da Armando De Ceccon) viene semispogliato da un raptus della focosa vecchia
Berta), suggestive figure in controluce sul muretto.
I suonatori di Fiorello si muovono compatti come stormi d’uccelli neri e fremono alla vista del denaro, Figaro si lava in una vasca da bagno di lato (come Anna Caterina Antonacci in Un giorno di regno, boh! Forse è all’interno della sua bottega che non compare in scena chiaramente).
I moduli
architettonici non fissi permettono il cambio degli ambienti, interni ed
esterni sempre ben comprensibili nel rispetto delle indicazioni del libretto.
Qualche trasparenza negli abiti morbidi e di diversi colori di Rosina,
vestaglie signorili per Bartolo che non è un “vecchio panzone”, ma un compunto
e nobil signore con la erre alla francese (noblesse obblige o omaggio a
Beaumarchais?).
La trovata registica più favolosa e originale è stata quella di
aver trasformato il conte in un maestro di musica nano, facendolo camminare con
le ginocchia alle quali erano state legate delle scarpe per simulare i piedi.
Comica la deambulazione, esilarante i cambi di posizione, da inginocchiato
davanti a Bartolo a ritto con scatto repentino per star accanto a Rosina quando
Bartolo guardava altrove.
La gioventù, la
prestanza fisica e la versatilità di Maxim
Mironov e di Davide Luciano
hanno favorito certe scelte registiche.
Notevoli infatti le
abilità attoriali dei protagonisti, con punti di merito alla frenetica mobilità
di Davide Luciano come Figaro, alla
vezzosa e civettuola freschezza di Aya
Wakizono come Rosina, alla credibilità scenica di Maxim Mironov (Conte d’Almaviva), alla maestria di Elena Zilio in Berta. La gestualità era
invece troppo contenuta per Bartolo e Basilio, sì che le loro figure, risultate
più caricaturali che maniacali, sono rimaste piuttosto generiche. Il più
penalizzato è stato Don Basilio che andava
caratterizzato nel gesto, nelle espressioni e non con la balbuzie, che
trasmette poi anche a Don Alonso.
Ne è derivato anche
il sacrificio della resa vocale. Non ho riconosciuto la bella vocalità di Pietro Spagnoli in Bartolo, così preso a scandire le parole con la erre
moscia dall’alto della sua figura di nobilomo impettito. Nell’aria “A un dottor della mia sorte” la voce,
pur non favorita da un’orchestra troppo sonora, è emersa nella tessitura acuta,
ma il sillabato è risultato approssimativo. Esilarante l’aria di Caffariello
cantata in falsetto.
Non mi è arrivato il
suono pastoso e scandito della voce di Michele
Pertusi, se non nelle arcate più larghe, in un Don Basilio un po’ distratto.
“La calunnia” non ha avuto forza persuasiva né è stata insinuante e
devastante.
Nella scena della febbre è mancato lo stupore. Più peperoncino per
Don Basilio e meno tabacco da annusare per i servitori sarebbe stato meglio.
Sarà colpa della
cattiva acustica e visibilità dell’Adriatic Arena? Perché dalle ultime file
dove mi trovavo avevano difficoltà a
vedere e a sentire e non solo io.
E quindi anche le
voci di Aya Wakizono e di Maxim Mironov, pur essendo di bel
timbro e ben gestite, rimanevano poco udibili, quella di Fiorello è rimasta proprio
in palcoscenico, eppure William Corrò
ha una bella voce di baritono; mentre quella screziata di Elena Zilio è passata alla grande grazie alla sua esperienza
e
quella di Davide Luciano si sentiva
da ogni angolazione.
Non vedendo i visi
degli artisti inoltre era difficile captare le loro espressioni, che sono
fondamentali in certe scene, non riuscendo a capire le parole né a leggere le
didascalie troppo piccole era difficile seguire l’azione per chi non conosce
l’opera a memoria, sentire le voci nei momenti di maggior espansione sonora e
quando gli artisti si spostavano sulla passerella attorno all’orchestra non ha
reso godibile la tanto attesa serata. La location non è adatta all’opera
lirica, a meno che non ci siano voci capaci di uscire dalle pareti del
palcoscenico ed espandersi in platea superando anche l’handicap degli angoli di
una sala quadrata.
La riguarderò in TV
per godermi i primi piani e per un ascolto più soddisfacente.
Comunque per quel
che ho potuto sentire Mironov si è
distinto per la soavità della voce, emissione accurata, acuti lanciati
chiarissimi (“Ecco ridente in cielo” con la chitarra di Eugenio Della
Chiara, parte riscoperta da Zedda), delicate mezze voci nella serenata “Se il mio nome”, accompagnata in
palcoscenico da Figaro stesso, ossia Davide Luciano),
ha gestito bene il suo mezzo vocale, molto
cautamente ha affrontato la difficilissima aria “Cessa di più resistere” con corretti vocalizzi ma poco scintillio.
Aya Wakizono ha evidenziato bel colore, buone agilità, ma poco spessore, con gravi indecisi e a volte intubati, per cui il canto a volte sembrava accennato, nonostante la capacità ad eseguire gorgheggi e luminosi slanci acuti (cavatina “Una voce poco fa”) e una vocalità duttile nelle note ribattute e nel sillabato fitto (“Dunque io son”). Dizione straniera
con la erre raddoppiata.
Davide Luciano ha esibito voce robusta di bel colore, a volte usata in modo irruente, ma anche variegata nei colori e nell’intensità, con buona proiezione acuta, pastosità nei recitativi. Bravo interprete e vivace attore, la sua voce è l’unica ad emergere nella nota pagina “Fermo ed immobile” con quella del corposo coro maschile che insieme all’orchestra domina nei concertati.
Bravissimo il Coro del Teatro Ventidio Basso di
Ascoli Piceno, preparato da Giovanni
Farina. Solo sedici uomini, con ottime qualità vocali per colore, spessore,
volume, estensione, morbidezza, tecnica, hanno restituito un amalgama sonoro di
alta qualità e un’avvolgente flusso musicale insieme alla brava Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai,
diretta dal M° Yves Abel, esperto
direttore rossiniano. Dalla Sinfonia
diretta e suonata fantasticamente col crescendo finale alle delizie musicali di
pagine più scoperte, dalla pienezza sonora nei concertati al ricamo finissimo
di certe situazioni inaspettate, direttore e orchestra si sono mossi entro le
linee tracciate dal compositore.
Regista
collaboratore e alle luci Massimo
Gasparon.
foto Amati e Bacciardi
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