(11-11-12)
Il Macbeth delle facce bianche
Di Giosetta Guerra
L’avidità non fa guardare in
faccia a nessuno, tanto vale aver di fronte facce tutte uguali, la follia
annebbia la visione della realtà, che perde quindi colore, contorni,
definizione, qualche sprazzo di lacerante lucidità serve a mettere a fuoco le nuove
vittime o le allucinazioni dei misfatti.
Questo, secondo me, è il
significato dell’allestimento del Macbeth di Verdi al Teatro Pergolesi
di Jesi con le scene di Josef Svoboda riprese da Benito Lenori, le luci e la
regia di Henning Brockhaus, i costumi di Nanà Cecchi, le coreografie di Maria
Cristina Madau.
Allestimento ricco di
trovate.
Il sipario si apre su un
gelido spazio, tipo paesaggio lunare, popolato di streghe gesticolanti, di acrobati
sospesi e corpi rotolanti, squarciato da lampi di luce bianchissima, rossa e
blu.
Bella l’idea registica delle
streghe funambole che si attorcigliano in aria su lenzuola bianche.
Il palcoscenico è nudo e
crudo, solo un artigianale trono regale dritto o ribaltato e un tavolo apparecchiato
all’occorrenza, quinte incolori si muovono in ogni direzione, si fanno
trasparenti od opache secondo la provenienza della luce, con la tecnica delle
proiezioni diventano grigi muri ruvidi, bianchissime pareti lisce, grumosi
pannelli lavici, accumulo di teschi e di fili spinati, groviglio di rami e di
alberi.
Nella scena del banchetto un
gigantesco specchio riflette il teatro, il grande tavolo e i due protagonisti,
ma lascia anche comparire sul retro le visioni del delirio di Macbeth. La scenografia
di un grigiore assoluto definisce più l’atmosfera opprimente che gli ambienti. Squarci
di luce lampeggiante acuiscono il senso di terrore, grigi o neri anche tutti i
costumi, grigio chiaro per le bende che fasciano le quasi onnipresenti streghe.
In più le proiezioni effettuate dal
davanti spesso investono anche i personaggi che appaiono come figure indefinite
e traballanti.
Tutti hanno la faccia dipinta di bianco.
I pochi elementi di colore
sono i lunghi capelli rossi inanellati della Lady, le corone dorate e i
mantelli rossi dei reali, l’azzurro della mensa imbandita, le immagini delle
visioni.
Con gli occhi della pazzia tutto è visto all’incontrario: per
brillantezza del colore e nitidezza delle forme le visioni e le allucinazioni
sono più realistiche della realtà stessa che è invece visionaria e allucinata.
Il regista
avrebbe dovuto lavorare di più sui caratteri, avidità e follia generano mostri
e la coppia dovrebbe essere fortemente caratterizzata nella gestualità e
nell’espressione. Su questa linea la Lady spiritata e con gli occhi sbarrati è la
più vera scenicamente, il re doveva essere più scavato dal tormento e Banco
doveva essere più grintoso.
Anche vocalmente la Lady Macbeth di Tiziana Caruso è
assolutamente credibile, non tanto per perfezione tecnica e vocale, quanto per
la forza dell’accento, la potenza dell’emissione, lo scavo della parola. Il
soprano ha esibito una voce graffiante, un po’ intubata nei gravi ma
squarciante negli acuti (Vieni,
t’affretta), una bella voce scura con zona acuta che ferisce, agile e
scintillante nel Brindisi, meno plastica nella nota aria La luce langue (suoni sommessi inudibili, gravi vuoti, slanci acuti
gridati). Ha modulato meglio la voce quando la follia era in stato avanzato,
pur mantenendo l’aggressività e la potenza vocale, che qualche volta avrebbe
potuto anche sciogliersi in filati, come fa la Theodossiou. Anche se l’emissione
non è sempre fluida e spesso l’urlo è in competizione con l’orchestra, l’interpretazione
viscerale della Caruso ha restituito una procace Lady violenta e assassina sia
nella voce che nelle finzione scenica, una pazza in trance nella scena del
sonnambulismo.
La voce ampia, piena ed
estesa di Luca Salsi ben si adatta alla smania di grandezza di Macbeth. Il baritono canta bene, usa con
vigore ma anche con morbidezza una voce grandissima, dai suoni puliti, rotondi,
sostenuti, lunghi ed ampissimi e dalla zona acuta brillante e luminosa, grazie
ad un fraseggio ora irruente e temperamentoso ora fluido e sfumato, all’intensità
dell’accento basato sullo scavo della parola scenica. Imponente anche nel
gesto. Linea morbida e fiati
lunghissimi per Pietà, rispetto, onore (e non amore come da libretto, l’ha detto e
l’ha fatto).
Banco aveva
la splendida voce del basso Mirco Palazzi; i suoni gravi penetranti e puliti, le
magnifiche arcate con fiati lunghi e suoni sostenuti e ben udibili anche sopra
le alte sonorità dell’orchestra (Come dal
ciel precipita), la proiezione morbida della voce (Oh qual orrenda notte) hanno ottenuto consenso e ammirazione.
Sonorità generalmente altissime delle
voci e dei suoni che comunque si amalgamano, si fondono e coinvolgono.
Pur essendo coreano, Thomas
Yun (Macduff)
ha esibito una buona pronuncia
italiana, ma anche bel colore tenorile, accento incisivo, squillo robusto,
dimestichezza col canto sfumato, buona linea di canto con le dovute smorzature
e fiati tenuti (Ah, la paterna mano).
Dario Di Vietri (Malcolm) è un tenore acuto dal timbro un
po’ aspro.
Il basso Carlo Di Cristoforo
(medico) ha voce scura di bel colore
ed espressione carica di spavento.
Miriam Artiaco (dama) è un sopranino pulito dai suoni un
po’ stretti.
Andrea Pistolesi (domestico, sicario e araldo) è un baritono
chiaro.
Magnifiche le atmosfere
create dal coro lirico marchigiano “V. Bellini”, preparato da Pasquale Veleno,
allettanti i quadri d’insieme. In Patria
oppressa la pienezza vocale è stata coinvolgente,
il canto sul fiato con formidabile sostegno dei suoni sfumati e tenuti a lungo,
la potenza nel canto pieno e la gestione morbida della voce, hanno
caratterizzato la sezione maschile, ottima anche nel canto staccato, ritmato e
sillabato.
Brave le streghe anche nel
canto scandito (Tre volte miagola) ma
il volume è poco.
Il M° Giampaolo Maria
Bisanti ha diretto con foga e partecipazione un’orchestra incalzante, tormentosa, a volte troppo
sonora. L’orchestra era la FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana.
Un bello spettacolo, come
siamo soliti vedere al Teatro Pergolesi di Jesi.
Per ricordare gli artisti marchigiani del passato.
Mario Tiberini debuttò il ruolo di Macduff nel secondo cast
di Macbeth agli inizi di carriera a Palermo il 13 dicembre 1852 col nome di
Mariano Tiberini (nel primo cast c’era Antonio Pompeiani), accanto a Ettore
Barili (Macbeth), Eufrosina Marcolini (Lady), Cesare Nanni (Banco), Paolo Mazza
(Malcolm), Adelaide Orlandi (Dama), Giovanni Grifo (domestico), Francesco
Rinaldi (medico).
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