San Lorenzo in Campo (PU) – Teatro Tiberini
Premio
Lirico Internazionale
Mario Tiberini,
25^ edizione.
25^ edizione.
(26
novembre 2016)
FRANCESCA PATANÈ
E MARCO CHINGARI,
COPPIA D’ORO
PER UN “TIBERINI D’ORO”.
L’inossidabile
Giosetta Guerra, ideatrice, musa e vestale del “Tiberini d’oro”,
replica l’edizione autunnale al “tartufo bianco” rientrando –
dopo la tappa pesarese dello scorso anno - nella sua sede storica, il
delizioso teatro di San Lorenzo in Campo intitolato al “superbo”
Tiberini. E va da sé che giocare in casa giova all’iniziativa e
alla sua entusiasta organizzatrice, perché è proprio quel
teatro e solo quel teatro la sede più appropriata per ogni
edizione del “Premio”, costituendone il luogo di nascita e la sua
ricca e gloriosa memoria storica.
Quest’anno
il “Tiberini d’oro” è andato a una coppia di artisti che sono
anche compagni nella vita da oltre vent’anni: il soprano Francesca
Patanè e il baritono Marco Chingari, i quali hanno dato
luogo a un vero e proprio spettacolo, ricco, avvincente, ben
articolato, vario.
Siamo
passati dalle arie d’opera (come era ovvio) all’operetta, alle
canzoni, al musical, alle poesie di Trilussa, con Marco Chingari
artista a tutto tondo, cantante, attore e presentatore di grande
presa e simpatia che faceva il paio con Giosetta Guerra nel
commentare, introdurre, intrattenere un pubblico molto raccolto,
selezionato e giustamente entusiasta.
Spettacolo
riuscitissimo, divertente, alla portata di tutti, ma allo stesso
tempo con lampi di luce anche per i palati più raffinati. In
definitiva, una serata memorabile.
Erano
molti anni che non assistevo a una performance di Francesca
Patanè e, quantunque consapevole che si tratta di un’artista con
la “A” maiuscola e di una cantante dotata di una tecnica di
prim’ordine, confesso che nutrivo qualche piccola apprensione sulle
sue attuali condizioni, stante il repertorio drammatico che ella
frequenta dagli inizi della sua carriera: volendo restare in regione,
la ricordiamo quale superba Turandot e conturbante Tosca alla Corte
Malatestiana di Fano a metà anni Novanta, quindi ancora Turandot e
Abigaille nel verdiano Nabucco allo Sferisterio di
Macerata e, soprattutto, Lady Macbeth di livello storico al “Ventidio
Basso” di Ascoli Piceno.
Ebbene
ogni mia apprensione è stata spazzata via fin dalla prima aria,
l’Habanera da Carmen di Bizet,
eseguita con
classe estrema, perfetta pronuncia francese, senza mai scendere a
compromessi col buon gusto con vezzi gratuiti di puro effetto, con
una presenza scenica che catturava l’uditorio (la Patané è sempre
bellissima).
Ha fatto seguito “Voi lo sapete, o mamma” da
Cavalleria Rusticana, una Santuzza dolente, tragica,
disperata, mai sopra le righe, egregiamente cantata e interpretata
con grande sentimento, con una ricchezza dinamica che si è
confermata nel corso dell’intera serata. Punta di diamante della
prima parte è stata la scena finale della Manon Lescaut
di Puccini, “Sola, perduta, abbandonata”, eseguita con
una sensibilità e un trasporto talmente convincenti da commuovere la
stessa artista, oltre che il pubblico.
Oggi
Francesca Patanè è – anzi, continua a essere – il miglior
soprano drammatico del mondo, e sarebbe un discorso lungo e anche
poco lusinghiero per i direttori artistici italiani se dovessimo
intrattenerci sulle ragioni che la vedono – inspiegabilmente, ma
forse fin troppo spiegabilmente… - lontana dai nostri palcoscenici.
Ella, peraltro, non è solo un “drammatico” di altissimo rango e
di grande potenza vocale ed emotiva, è anche una vocalista
conclamata, basti ricordare un Summertime che è stata una
perla, per musicalità (grande prerogativa, questa, della poliglotta
artista figlia del grandissimo Giuseppe Patané e nipote
dell’altrettanto glorioso Franco), per la capacità di raccogliere
la voce, impostandola su piani e pianissimi sempre fermi, ben tenuti
e ottimamente impostati. Per non parlare, poi, del rossiniano “Duetto
dei gatti” in cui la Patanè si è rivelata in tutta la sua
ironica sensualità, alternando i propri allusivi “miagolii” con
quelli della sua giovane allieva, il
soprano Giulia
Pelizzo (che si era esibita, poco prima, con sensibilità
e grazia, in un commosso “Pace, mio Dio”, da
quell’opera…..che, per “Forza”, non si può
certo nominare!).
È
chiaro che Francesca Patané metterebbe in ombra chiunque, ma
Marco Chingari ha dalla sua delle carte non buone, ma ottime. Grande
artista della scena, Chingari sa sempre ciò che sta cantando e
pertanto, prima ancora di attaccare, bastano un suo sguardo sul
pubblico o nel vuoto, la sua postura per portarti nel clima del
personaggio, nella sua psicologia, in breve nella vicenda teatrale e
soprattutto umana di un sinistro Barnaba (“O monumento” da
Gioconda di Ponchielli) o di un Renato (“Eri tu”
da Un ballo in maschera di Verdi) devastato
dalla gelosia e dai rimpianti.
Sul
piano squisitamente vocale Marco Chingari conserva una meravigliosa
zona centro-grave, un legato d’altri tempi e, in sostanza, una vera
voce di baritono, densa e di colore bellissimo, con una dizione e un
fraseggio degni dell'antica “scuola romana” di cui egli è degna
espressione. La sua è una voce che gli permette di affrontare in
modo convincente anche l’aria, assai rognosa, di Escamillo (Carmen)
senza arrivare sfiatato e incolore nella zona centro-grave del brano,
e poco importa se qualche escursione nel registro acuto ha trovato
qualche momento di appannamento, come del resto accadeva – e
sistematicamente - anche un mostro sacro come Pippo Di Stefano, che
sacro era e tale rimaneva in ogni circostanza.
Del
Chingari attore, presentatore, cabarettista abbiamo già detto: egli
non ha solo un futuro davanti a sé, ma ha un luminoso presente che
gli fa conseguire lusinghieri risultati perché è simpatico, perché
ci sa fare, perché sa cosa significa la sapidità dell’accento e
perché sa “dare del tu” al pubblico, mettendolo in tasca come e
quando vuole, calando i suoi assi a ripetizione, magari in modo a
volte un po’…… debordante, con la stessa naturalezza che egli è
uso praticare in contesti privati. Ecco, la capacità di Marco
Chingari è di farti sentire “in famiglia”, e questa è una sua
grande virtù, che lo fa amare dal pubblico perché egli sa
regalargli serenità e allegria, distogliendolo dalle preoccupazioni
della quotidianità.
Accompagnava
magistralmente i cantanti il pianista
Giovanni Brollo,
raffinato e convincente, un vero artista, che ha onorato il
pubblico con un delizioso brano solistico di Ruggero Leoncavallo,
“Valse mélancolique”,
in cui ha dato un saggio di rara maestria e anche dell’altissimo
magistero, purtroppo a volte misconosciuto, dell’autore de I
Pagliacci.
La serata è finita in gloria con le premiazioni alla presenza del sindaco di San Lorenzo di Campo, Davide Dellonti. Quindi, il rush finale con i classici napoletani e romani, tra cui “O sole mio” di Di Capua e “Roma non fa’ la stupida stasera” del grande Trovajoli, col pubblico entusiasta a cantare con Chingari sotto la sua direzione.
(Stefano Gottin)
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