ANCONA, TEATRO DELLE MUSE
UNA FRESCA E GIOVANE BOHÈME
PER UNA BUONA APERTURA DI STAGIONE
(9
ottobre 2015)
Servizio
di Stefano Gottin
La
Bohème, di Giacomo Puccini: opera per me familiare
nel vero senso del termine poiché collegata al grato e affettuoso
ricordo della mia nonna materna, Fanny, che nacque nello stesso anno,
il 1896, in cui l’opera vide la luce il 1° febbraio al Teatro
Regio di Torino sotto la direzione del giovane Arturo Toscanini.
La
Bohème, si diceva: col trascorrere del tempo sempre più ne
rilevo la modernità teatrale e musicale, l’attualità dei
sentimenti e delle vicende che la animano. Raramente, infatti, un
titolo lirico presenta una tale continuità d’ispirazione e una
simile “perfezione” d’impianto: mirabile nella sinteticità
degli episodi e per la compattezza dell’insieme, scattante ed
equilibrata nell’incedere narrativo dei fatti (a conferma che Verdi
era ben presente a Puccini); sul piano musicale, un’opera nel solco
della migliore tradizione italiana, ma moderna, aperta alle novità
della musica europea di quell’epoca e dell’avvenire; opera
soprattutto in grado di “incontrare” il gusto del pubblico di
ogni tempo e perciò anche di quello futuro, posto che essa è un
crogiolo di sentimenti, valori e pulsioni eterni.
La
Bohème, opera di giovani e per giovani perché sa
far riemergere da ciascuno di noi, indipendentemente dall’età, il
profumo della nostra giovinezza e il senso di quel precipizio
interiore di quando, ancor giovani, la vita ci mette a confronto con
la morte di persone care, con l’irreparabilità della loro perdita
e con la solitudine che ne deriva, tutti aspetti esistenziali
considerati fino ad allora mere astrazioni o, tutt’al più,
problemi non nostri, quasi che fossimo investiti di un’aura di
immunità inossidabile, che in un istante è invece andata in
frantumi.
Così
è per i giovani personaggi del titolo pucciniano, dei quali il
Teatro delle Muse di Ancona ha voluto ripercorrere le vicende con uno
spettacolo in economia, fresco e ed essenziale, ideato dal regista Nicola Berloffa, (scene di Fabio Cherstich e costumi
di Valeria Bettella), che ha avuto l’intelligenza di non
complicarsi/ci la vita con soluzioni pseudo-intellettuali, ma di
lasciar parlare il mirabile libretto di Giacosa e Illica con le
relative didascalie (anche in questo si vede che La Bohème è
un capolavoro, poiché musica e libretto dicono già tutto senza
bisogno di “mediazioni culturali”).
Il
maestro Gabriele Bonolis, a capo dell’efficiente
FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana, dirigeva con appropriatezza
ma anche in modo poco personale la partitura pucciniana, in verità
molto complessa e preoccupante banco di prova per qualunque direttore
che non abbia avuto dimestichezza con la gavetta del teatro lirico e
provenga invece dalla musica sinfonica (la quale, è bene ricordarlo,
presenta difficoltà differenti ma decisamente minori rispetto allo
spettacolo lirico).
Note
positive per la compagnia di canto che si è distinta per capacità
attoriale e naturale tenuta del palcoscenico: ragguardevole, anche in
questo senso, il contributo del regista Nicola Berloffa.
Su
tutti ricorderei il soprano Grazia Doronzio (Mimì),
incisiva nella dizione e nella messa a fuoco del timbro, sicura
nell’intonazione, propensa a curare le dinamiche e nel
differenziare le intensità di suono, seppure con una tendenza appena
percepita a stringere il suono in zona acuta. Davvero
pregevoli, nell’interpretazione del giovane soprano, ci sono
sembrati i due ultimi quadri dell’opera.
Bravo
anche il tenore Jenish Ysmanov (Rodolfo), dotato di
appropriato physique du rôle
e di voce ben impostata e squillante in zona acuta, ma ancora un poco
fané nei centri e nella dizione.
Efficace
ed incisiva la Musetta interpretata dal soprano Lavinia
Bini, brillante, civettuola, seduttiva, ma accorata nel IV
quadro. Il baritono Francesco Vultaggio dava voce sicura e
giusta quadratura emotiva al sanguigno personaggio di Marcello,
mentre Schaunard era affidato all’altro baritono della
compagnia, Italo Proferisce, ancora un poco acerbo per questo
difficile ruolo. Il ruvido e sensibile Colline era il basso
Dario Russo, vocalmente ben attrezzato e puntuale nella
“Zimarra”. Di accertato professionismo il baritono Marco
Camastra nel doppio ruolo da caratterista di Alcindoro e
Benoit. Come si suol dire, bene gli altri: il Parpignol di
Alessandro Pucci, Il doganiere di Gianni Paci,
il Sergente dei Doganieri di Roberto Gattei. Una
finale nota di apprezzamento per il Coro Lirico “V. Bellini”
di Ancona, per il Coro di Voci Bianche “ArteMusica” con Maestro
del Coro Angela De Pace e per la Banda di Palcoscenico
Orchestra Fiati di Ancona con direttore Mirco Barani.
Il
teatro, nonostante la straordinaria popolarità del titolo, non ha
fatto il pieno (effetto crisi?) ma il successo è stato via via
crescente, con vive acclamazioni al soprano Grazia Doronzio e
agli altri artisti in misura coerente con i rispettivi valori in
campo.
Esordio
azzeccato per le Muse, come comprovava la commozione, nel finale, da
parte del pubblico e di chi scrive (che, tra l’altro, pucciniano
non è …).
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