Teatro Comunale “Luciano Pavarotti” di Modena
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Giuseppe Bardari, dalla tragedia omonima di Friedrich Schiller. Musica di Gaetano Donizetti
Maria Stuarda con una Mariella Devia sopraffina
al massimo dello splendore vocale
(6 novembre 2010, prima)
Di Giosetta Guerra
Al suo apparire applausi scroscianti, come succede per i grandi attori del teatro classico, dal pubblico che gremiva il teatro fino al loggione. Non ho memoria di aver mai assistito ad una simile accoglienza nel teatro d’opera, ma Mariella Devia è un’icona del belcanto, una cantante di riferimento per la gestione del mezzo vocale, per gli esercizi di alto virtuosismo, per il controllo eccezionale del fiato, per la melodiosità infinita del canto, per la pulizia incontaminata del suono, per la sublimità dei sovracuti, per l’aderenza al personaggio sul versante interpretativo. Mariella Devia è una star di prima grandezza che, pur nel massimo del suo splendore vocale, non si atteggia a diva.La sua Maria Stuarda è stata superba: imponente e furente nel pezzo di bravura che è l’invettiva contro Elisabetta “Figlia impura di Bolena”, ha piazzato un sovracuto da brivido sulla parola “oscena”; delicata e dolcissima nel ricordar Arrigo, morto per lei, (“Quando di luce rosea”), ha tenuto un melodioso canto sospeso sulle parole “ombra adorata” con fiati lunghissimi su fili di seta lucidissimi ed è stata artefice di un ossimoro forse mai realizzato, la morbidezza degli acuti taglienti; ieratica e sublime nell’augurar felicità ad Elisabetta, sua sorella e sua aguzzina, (“D’un cor che muore reca il perdono…Dille che lieta resti sul trono”), ha fatto svettare la voce sopra la massa corale e allo scatto acuto su “implorerò” ha fatto seguire un florilegio di filati terminanti in una strepitosa scala discendente. Una tenuta vocale ed una gestione del fiato fuori dal comune ed un’intensità drammatica da manuale. Bravissima. Il pubblico ha risposto con un boato interminabile ed un entusiasmo incontenibile.
Un’Elisabetta credibile, sprezzante e talvolta dubbiosa, è stata delineata da Nidia Palacios, che al suo ingresso “Sì, vuol di Francia il Rege” ha evidenziato una voce abbastanza melodiosa, poco fluida nelle agilità, ma in grado di cantare in maschera e di eseguire acuti e trilli. Il ruolo è difficile perché esteso, svetta nell’acuto e scende nel grave, ma il mezzosoprano argentino lo ha interpretato con dignità e competenza sia vocale che scenica. Il giovane tenore turco Bülent Bezdüz, che ha sostituito l’indisposto Adriano Graziani nel ruolo di Roberto conte di Leicester, ha avuto un ingresso vocalmente incerto, ma poi ha acquistato sicurezza ed ha cantato sul fiato usando con generosità una voce di timbro chiaro e pulito, un po’ rigida ma estesa, è stato un conte focoso e si è prodigato in puntature acute e suoni tenuti fino agli acuti lancinanti dell’invettiva finale contro Cecil e contro tutti in difesa di Maria. Buone le voci del basso Ugo Guagliardo nel ruolo di Talbot e del baritono Gezim Myshketa nella parte di Cecil: peso e ampiezza erano gestiti con morbidezza; Caterina Di Tonno, come Anna Kennedy, ha messo in luce una delicata vocina di soprano.
Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, è stato capace di sonorità strepitose e di un amalgama maestoso. L’Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna è stata diretta in modo garbato da Antonino Fogliari. L’allestimento dell’Opéra Royal de Wallonie di Liegi in Coproduzione con Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena, aveva le scene di Italo Grassi (grate ferrigne a lato e sospese in tralice, pavimento in pendenza, un muro sulla destra, fondale apribile su panorami diversi, anche su una suggestiva nevicata) e le luci di Fabio Rossi che hanno sottolineato i sentimenti coi colori e con un gioco di ombre riflesse. Bellissimi i costumi d’epoca in velluto ideati da Francesco Esposito, che ha curato anche la regia (quadri statici nei concertati, movimenti lenti delle masse, incedere regale delle due regine, tappeto oro per Elisabetta, tappeto rosso per Maria, che va incontro al martirio dirigendosi verso il fondo con le braccia aperte, quasi ad abbracciare il mondo). Una regia garbata, ma il finale ci ha lasciato senza emozioni. Ricordo invece ancora la scena finale carica di pathos di una Maria Stuarda curata da Gabriele Lavia a Bergamo nel 1988. Lo spettacolo è stato comunque positivo e la presenza della Devia lo ha reso prezioso. Io sono uscita soddisfatta, anche se col collo torto per la posizione poco comoda del posto assegnatomi.
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