Milano, Teatro alla Scala
IL TROVATORE
di Giuseppe Verdi
di Giuseppe Verdi
15 febbraio 2020
Per un incastro di epoche Manrico va al museo tra le armonie cromatiche dell’arte.
Per il 500°
anniversario della morte di Raffaello Sanzio il
regista Alvis Hermanis ambienta
l’opera in una pinacoteca, che raccoglie i
migliori quadri della pittura italiana del Rinascimento, Raffaello in
primis.
I personaggi
principali, vestiti da guide museali con la bacchetta in mano, si fermano
davanti ai quadri e, anche se non c’entra niente, narrano ai visitatori in
abiti moderni, in piedi o seduti su divanetti, interpretati dai coristi, la
drammatica storia dei bimbi scambiati e le fosche vicende ad essa collegate. Il regista, autore anche della scenografia
insieme a Uta Gruber-Ballehr, fa
scorrere in varie direzioni dei pannelli con quadri per variare la scena, che
comunque non definisce gli ambienti descritti da Cammarano, ma dà una nutrita
panoramica della pittura rinascimentale. L’impatto visivo è piacevole, ma porta
fuori strada. Lo sgomento cresce quando, con il principio del flashback, tutti i
personaggi vengono ogni tanto catapultati nel XV secolo con magnifici purpurei costumi
di velluto, di foggia rinascimentale, e copricapo simili a quello del Duca Federico da
Montefeltro nel quadro di Piero della Francesca.
Questo incastro di epoche, come nel famoso film di Benigni e Troisi del 1984 “Non ci resta che piangere”, pur nel rispetto delle convenzioni estetiche, non favorisce certo la comprensione della trama, oltremodo intricata e romanzesca, ma la musica di Verdi in questa sua opera della trilogia popolare è talmente bella e nota che quasi quasi si preferisce ascoltarla tra le armonie cromatiche dell’arte che nelle fosche tinte del dramma.
Questo incastro di epoche, come nel famoso film di Benigni e Troisi del 1984 “Non ci resta che piangere”, pur nel rispetto delle convenzioni estetiche, non favorisce certo la comprensione della trama, oltremodo intricata e romanzesca, ma la musica di Verdi in questa sua opera della trilogia popolare è talmente bella e nota che quasi quasi si preferisce ascoltarla tra le armonie cromatiche dell’arte che nelle fosche tinte del dramma.
Le unità
spaziali sono suggerite dalla disposizione
delle masse e dei pannelli, dalla
profondità del palcoscenico e dal disegno luci di Gleb Filshtinsky.
Spicca il
contrasto cromatico fra l’abbigliamento contemporaneo e i costumi tradizionali,
che invece si abbinano con l’ambiente colto e raffinato del museo. Comunque nulla
risponde ai dettati del libretto.
Belle le scene
a lungo campo col rosso dominante, colore che
suggerisce l’idea del fuoco e del sangue, senza mostrare la pira che arde, né i guerrieri con armature.
Il Trovatore ha uno spessore sia musicale che psicologico.
La musica scaturisce da un’inventiva melodica che si
scioglie in un canto appassionato ed eroico, fino a scoppiare in ardite cabalette.
I personaggi delle
opere liriche del periodo romantico sono giovani ed eroici, ma i compositori
hanno scritto per loro pagine che richiedono una vocalità importante, per cui gli
interpreti devono combinare credibilità scenica e grande voce.
Purtroppo non si sono rilevate
eccellenze qui sul versante vocale.
Nel ruolo del Conte di Luna, giovane gentiluomo
aragonese, il baritono Massimo
Cavalletti esibisce un bel timbro vocale e una linea di canto morbida, canta
bene, sul fiato e tiene a lungo i suoni acuti, ma quando li forza gli diventano un
po’ ballerini ("Tace la notte" terzetto finale atto
I) e anche il
canto a voce piena non brilla per fermezza (Aria “Il balen del suo sorriso”).
Leonora, dama di compagnia della Principessa d'Aragona, è una
prima donna con una vocalità ancora belcantistica, sulla scia della
donizettiana Lucia. Il soprano Liudmyla
Monastyrska, che qui impersona una guardiana o una guida del museo, ha la melodia nel canto, ma nel notturno
del prim’atto, la Cavatina “Tacea
la notte placida”, presenta
gravi flebili, medi ingolati, voce tremolante, acuti pieni; nella cabaletta
con orchestra frizzante “Di tale amor” esibisce voce duttile,
belle scale discendenti in tessitura acuta, gorgheggi pieni, ma suoni intubati
in zona media; sfodera voce
carismatica nella grand’aria del quart’atto “D’amor sull’ali rosee”.
Manrico, ufficiale del
principe Urgel e presunto figlio di Azucena, è appannaggio del noto tenore Francesco Meli. Fin dal canto iniziale da fuori campo accompagnato
dall’arpa, il tenore evidenzia un mezzo vocale esteso, di bel timbro, ma vacillante
in tessitura acuta; Meli sa fraseggiare, ammorbidire con sensibili mezze voci e
conosce la tecnica della messa di voce, ma spesso esprime la tinta eroica col
canto di fibra e purtroppo il canto troppo teso e di forza gli gioca un brutto
scherzo nella “pira”.
Azucena, zingara della Biscaglia, è anch’ella una guida
museale che canta la Canzone “Stride la
vampa” davanti ad un quadro con la bacchetta in mano di fronte a un gruppetto
di visitatori, forse trasecolati ma immobili. Il mezzosoprano Violeta Urmana, non credibile come
personaggio perché nulla emerge teatralmente della sua visceralità e della sua
tragica vita, ha voce densa e screziata, frecciate acute lancinanti, ma i suoni
sono volte intubati e non sempre fermi, tuttavia l’interpretazione è intensa grazie
ad una tecnica d’emissione consolidata e all’esperienza della cantante.
Anche Ferrando, capitano degli armati del conte di Luna, è una guida
museale che narra la storia dell’abbietta zingara. Nel ruolo si cala
propriamente Riccardo Fassi, il
giovane basso dotato di bella voce ampia e timbrata, ascoltato la scorsa estate
al R.O.F., dove lo ritroveremo la prossima estate.
Ines, confidente di Leonora, è una guardiana, con la vocina
di soprano di Noemi Muschetti, allieva dell’Accademia del Teatro alla Scala.
Allievi sono anche il tenore Taras
Prysiazniuk nel ruolo di Ruiz,
soldato al seguito di Manrico e il basso Giorgi
Lomiseli in quello di un vecchio
zingaro. Il tenore Hun Kim
è un messo.
I coristi, che dovrebbero rappresentare le compagne di
Leonora, le religiose, i familiari del conte, gli uomini d'arme, gli zingari e
le zingare, non hanno una definizione nitida, ma scenograficamente compongono dei
suggestivi tableaux vivants
(cantano “Vedi, le fosche notturne
spoglie” seduti a terra riempiendo in modo armonico tutto lo spazio di un
palcoscenico allungato) e vocalmente restituiscono un amalgama sonoro di alto
pregio.
Il Coro del
Teatro alla Scala, preparato dal M° Bruno
Casoni, si esprime magnificamente, con pienezza del suono nel canto
vigoroso, delicatezza in quello morbido, nelle mezzevoci e nei suoni sommessi
del Miserere, precisione tecnica nel
canto sillabato e ritmato.
L’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta dal M° Nicola Luisotti, si mantiene per lo più morbida e sensibile, frizzante
nelle cabalette, piangente nel dramma, lacerante nelle rimembranze, ma a volte i
suoni sono gonfiati e il volume cresce con la tensione del canto.
E allora si avverte una certa competizione tra il canto e l’orchestra quando gli animi sono infuocati, come nel terzetto d’amore e gelosia, Conte-Manrico-Leonora, nel finale dell’atto primo, e nel duetto Manrico-Azucena, nei quali l’orchestra è inizialmente duttile e discreta per lasciar libero sfogo alle voci, ma poi passa a forti sonorità col crescer della tensione e le voci si lanciano in un canto tirato e di forza.
Foto di
Brescia/Amisano –
Teatro alla Scala
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